Abbiamo assistito nelle settimane passate a una virtuale seduta psicanalitica di scrittori e giornalisti italiani che aveva come argomento Ernst Jünger appena morto. Ognuno ha proiettato sulla vita e sull’opera dello scrittore tedesco i propri fantasmi. Sono riemerse le cantilene antinaziste, la retorica del guerriero, la destra e la sinistra, queste divertenti categorie che servono come stampelle agli spiriti deboli per avventurarsi nei terreni minati del pensiero: vi è stato anche chi senza temere il ridicolo ha sostenuto che «nobili cascami estetizzanti hanno informato da cima a fondo tutta la sua produzione letteraria». Ma il lettore scevro da «pregiudizi» che scorre le sue pagine cristalline, evocatrici, dove la precisione della parola testimonia della consustanzialità dello stile al pensiero, non potrà non rammentare che la forma è il suggello visibile di una condizione interiore: «servizio liturgico» lo definiva Jünger «che conduce a un’immagine invisibile» non diversamente da quello dei fiori, sacerdoti di un culto solare che con le loro forme in modi diversi «imitano il disco raggiante al quale essi si volgono come uno specchio».
Pochi, come per esempio Antonio Gnoli, Giuseppe Conte e Jean-Jacques Langendorf, hanno saputo sottrarsi a questo gioco miserevole che ha raggiunto l’apice in una trasmissione radiofonica su Radiotre dove il conduttore crocifisso alla sua cultura ideologica continuava a domandarsi angosciato: «Da che parte sta Jünger?».
Da che parte sta? Purtroppo per questi nevrotici portatori del virus più grave dell’epoca contemporanea, non sta da nessuna parte politica, o meglio è racchiuso in un pensiero che ha attraversato con lucidità il nostro secolo, designando con simboli i suoi protagonisti; e dall’ultimo dopoguerra ha imboccato la strada del Bosco dove tutte le categorie del Novecento si sfarinano come foglie secche. Non casualmente egli partecipava agli incontri di Ascona con studiosi e scrittori come Jung oEliade, Dumézil o Kerényi, che nel bosco vivevano da sempre. E non casualmente diresse per anni con Eliade la rivista Antaios dove la riflessione religiosa e filosofica prevaleva sulle false contrapposizioni in cui si avvoltolavano i pifferi della rivoluzione permanente.
Da più di mezzo secolo, mentre i suoi critici continuavano a rivangare Mobilitazioni totali e Operai, Jünger si trovava già altrove, non soltanto con i suoi coleotteri, ma anche intento all’ascolto di ciò che poteva condurre di là dal deserto nichilista. Forse poche frasi come queste possono testimoniare la direzione del suo viaggio: «Quando tutto è silenzio le cose cominciano a parlare; pietre, animali e piante diventano fratelli e sorelle e comunicano ciò che è nascosto… Un arcobaleno invisibile circonda quello visibile». E parlando del giardino della sua casa nella Foresta Nera scriveva: «Nei giardini come questo si dimenticano tutti i nomi, anche il proprio. Le cose parlano con la loro forza senza nome. Ci invade un senso di gioia, sorge il presagio dell’ora in cui ci lasceremo alle spalle non soltanto il nome, ma anche le cose. Nel silenzio il manifestato comincia a comunicare ciò che è celato, avviando l’animo verso il suo nucleo più profondo, mostrando come il ciclo di morte-vita-morte del visibile abbia al suo centro l’immutabile: come il destino di ogni vita sia compiuto nell’ambito del suo tempo, che varia di essere in essere, fino a quello di poche ore dello scarabeo spagnolo. La speranza è di uscire infine dal ciclo, di fondersi in comunione con l’immutabile, secondo quanto insegnano tutte le religioni».
Nel Bosco Jünger rifletteva sul nostro tempo artificiale-lineare in cui i processi diventano automatici condizionando la libertà dell’uomo più della schiavitù antica e creando una nuova divisione castale: fra i pochi, i nuovi signori, che possono sottrarsi agli automatismi, ai ritmi del tempo meccanico, e gli altri incatenati al tempo artificiale. Divisione castale che non si può esorcizzare con la sua nevrotica negazione ma con la comprensione dell’origine della malattia e con una possibile, anche se per ora inapplicabile, terapia capace di riconquistare quella sfera universale, da dove si possa abbracciare l’attuale processo in tutta la sua ampiezza, nell’intento di riarmonizzare tempo lineare e circolare, tempo calcolante e tempo fluente, cogliendo l’ordine insito nella creazione. «In noi vive – osservava – anche la dimensione dell’eterno, un potere che si è alimentato alle fonti dell’eterno e che, come il braccio di Gulliver, lacera la ragnatela del tempo del’orologio. Lì è la nostra forza. Nella selva non batte l’ora. Non saremo perciò vittime in eterno dell’automatismo. È questo il segreto delle dottrine di salvezza. Se fosse altrimenti, non potremmo neppure riflettere sul tempo».
Dal folto del Bosco intuiva che era imminente il secolo dei Titani, destinato tuttavia a tramontare, come furono sconfitti gli esseri mitici nella guerra delle origini: «Che i Titani non siano alla fine sufficienti – concludeva enigmaticamente lo scrittore – fu dimostrato in forma augurale dal naufragio sull’iceberg della nave battezzata con il loro nome. È ben raro che Cassandra scenda, come allora, nei dettagli».
Camminava Jünger, realmente e metaforicamente nel Bosco: «Il cammino – scriveva – è più importante della meta nel senso che esso la contiene in ogni istante, soprattutto in quello della morte». In esso è significativo ogni tratto. «La meta è sempre possibile, sempre e dappertutto; il viandante la porta con sé, come il suo orologio. E se il cammino è pensato come una passione, egli si porta la sua croce fin dal principio. Nessuno muore prima di aver realizzato il suo compito». (Tratto da Il Giornale del 7 marzo 1998)