Crisi o non crisi, nessuno ferma il calcio. I dati della Fifa parlano chiaro: solo nel 2014 sono stati spesi 4,1 miliardi di dollari per i trasferimenti. Poco più dell’intero Pil di un piccolo Stato europeo come Andorra e poco meno di quello di un altro piccolissimo (ma economicamente strategico) Stato come il Principato del Liechtstein.
Maramaldeggiano i club inglesi. Le squadre della Perfida Albione sono quelle che hanno speso di più. In fondo basta pensare soltanto all’estate dorata e folle del Manchester United per rendersi conto del tremendo baratro che separa le major di sua maestà dalle rivali europee. L’Inghilterra, si diceva, ha speso più di tutti: 1,17 miliardi di dollari. Poco meno della metà della spesa preventivata dalle autorità cinesi per l’acquisizione del porto del Pireo che, pochi giorni fa, è stata congelata dal neoeletto premier greco Alexis Tsipras. C’entrano poco le due cose, probabilmente, ma è giusto per farsi un’idea.
Il Brasile manco scherza. E’ la prima potenza mondiale in termini di calciatori fisici “mossi” dalle manovre di mercato. E la bilancia dell’export carioca rimane, ovviamente, in attivo: a fronte di 646 calciatori “entrati”, ne sono “usciti” 689. Potenza emergente del calcio, il Brasile, non lo è mai stato. Potenza acclarata e riverita, invece, sì.
E l’Italia? Siamo al top in una delle classifiche stilate dalla Fifa. Siamo la seconda nazione al mondo più generosa con procuratori, intermediari, agenti, maneggioni e top manager. Il pallone offre a Giginho e ai suoi fratelli di leche (e di affari) una somma complessiva pari a 36 milioni di dollari. Quest’anno, però, son andati malino rispetto al 2013 quando incassarono circa a 44 milioni, somma pari a quella ottenuta (suppergiù) dalla casa d’aste Sotheby per la vendita del Fiore di Georgia O’Keeffe, il quadro dipinto da una donna più “costoso” della storia dell’arte moderna.