Sono convinto da sempre , per la cultura che ho fatto mia, per i libri che ho scritto, per il cammino spirituale che ho percorso, che i simboli siano il cibo preferito dell’anima umana, anzi l’unico che la sfama davvero e le consente di esprimersi nel suo linguaggio e nella sua energia alla ricerca di verità. Per questo , quando ho letto il titolo di questa 44° edizione delle Giornate Internazionali di studio dedicate ai dialoghi interculturali tra Europa e Mondo Arabo, La palma e l’abete, ho subito individuato la valenza simbolica di questi due alberi che mi richiamano alla mente immagini diverse, le sponde assolate e azzurre del Mediterraneo , i boschi nebbiosi e color verde cupo nel Nord del Vecchio Continente.
La palma , con i suoi rami lunghi e flessibili, è simbolo di vittoria per i Romani, e passa a simboleggiare per i cristiani il martirio, ovvero la vittoria sulla morte : rappresenta quindi ascensione, rigenerazione, e immortalità. Appartiene alla famiglia del ramo d’oro che Enea deve cercare per iniziare la discesa all’Ade nel canto VI dell’Eneide, del vischio druidico, cui probabilmente Virgilio , romano per cultura ma nato in territorio celtico, si richiama in un esempio di mirabile sincretismo mitico-religioso. Albero della Vita nelle culture africane, la palma è arrivata sino a noi come simbolo cristiano di certezza nella Resurrezione.
L’abete per i Greci era sacro ad Artemide, dea vergine, lunare, che rappresenta la purezza della natura, cacciatrice di cervi ma anche protettrice del parto e dei bambini. Il suo culto cadeva nel primo giorno dell’anno, celebrando la nascita del Bambino Divino, il Sole, cui il cristianesimo sostituì la Natività di Cristo. L’abete diventa così simbolo di rinnovamento cosmico. Come la pigna, negli antichi culti dionisiaci e orfici, rappresentava l’immortalità della vita vegetativa e animale.
Sotto il profilo simbolico, la palma e l’abete tendono così a incontrarsi. Entrambi hanno a che fare con il senso della rinascita, del bisogno che ha l’uomo di credere che non tutto finisce, che il ciclo della vita è destinato a continuare , che la vittoria della vita sulla morte è qualcosa di certo e di ineliminabile. Chi ancora oggi adorna un abete a Natale o agita un ramoscello di palma nella Domenica prima di Pasqua, raramente conosce il valore spirituale di ciò che sta facendo. In realtà l’uomo contemporaneo è travolto e appiattito da una cultura che relega l’anima, lo spirito, il linguaggi dei simboli in una posizione subalterna rispetto ai linguaggi della tecnica, della scienza, dell’economia, tanto da perdere il contatto con le origini lontane del proprio pensiero , con i grandi perché, e con il senso profondo della propria vita.
Il pensiero mitico-simbolico , con la sua forza ciclica che va da cultura a cultura, da popolo a popolo, unisce. Costruisce ponti. Mentre il pensiero etnico, fondato sul radicamento in una sola realtà nazionale e culturale, separa. Come rischiano di separare la politica, quando si svilisce in logiche di parte o di pura supremazia, l’economia, quando accetta senza batter ciglio la divisione tra pochi ricchissimi e masse immense di poveri, la stessa religione, se tradisce se stessa e si barrica nel fondamentalismo.
Perché l’Europa e il Mondo Arabo si incontrino, dialoghino, commercino, si amino e producano frutti insieme, quello che io da sempre auspico, bisogna che si conoscano innanzi tutto nelle loro realtà mitico-simboliche e spirituali. Il mio personale incontro con il Mondo Arabo e con l’Islam è avvenuto proprio su quel piano. Non mi sono fermato a considerare soltanto i fattori politici ed economici ( le guerre con Israele, le crisi petrolifere, l’imporsi dei paesi arabi nella agenda geopolitica del mondo, le grandi migrazioni dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa) ma ho cominciato un lungo percorso attraverso la tradizione, la spiritualità, la poesia islamica, scoprendo un universo dal quale attingere per la mia stessa formazione.
Mi sono sempre stupito come persone anche di rango, parlando delle espressioni culturali del Mondo Arabo, non riescano a citare altro che Le Mille e una Notte. O, se va bene, le quartine di Omar Kahyyam. La cultura arabo-islamica ha una ricchezza inimmaginabile per chi non si mette in cammino attraverso di essa. Per me , la lettura di Abu Nuwas, Ibn Farid, al-Mutanabbi, e , tra i Sufi, di Yunus Emré, Attar, Rumi, Hafiz,è stata una fonte di continue rivitalizzanti scoperte. Il piacere dei sensi mai separato da quello dell’anima, l’amore tra estasi e martirio, i giardini di rose specchio dell’universo, il vino mistico, il viaggio dell’anima tra i quattro elementi, il viaggio della farfalla verso la candela accesa sino all’annullamento felice nella fiamma: un universo di simboli in cui anima individuale e Anima del Mondo si incontrano, sprigionando energia luminosa.
Sohravardi, il maggiore forse dei pensatori Sufi, è stato una delle mie letture capitali. A lui si deve un bellissimo trattato intitolato Mu’nis al-‘oshshaq, che potrebbe essere tradotto con Vedemecum dei Fedeli d’amore, che ci mostra Dio creare come primo essere una essenza di luce chiamata Intelligenza, e dotarla della triade di Bellezza , Amore, Nostalgia, principi cardine su cui si modella la dinamica della nostra anima e del cosmo. Influenzato dal neoplatonismo e da Plotino, Sohravardi probabilmente ebbe a sua volta influenza sulla nascita in Provenza e in Toscana della setta dei Fedeli d’Amore, cui Dante non fu estraneo, e sul pensiero sottostante la poesia trobadorica e lo Stil Novo. Il misticismo islamico arrivò a influire sul pensiero del Rinascimento, ne è un esempio quel libro aureo che è il De Hominis Dignitate di Pico della Mirandola. Ed è infine dallo scartafaccio di Toledo dovuto a Cid Hamet Ben-Engeli, storico arabo, che Cervantes immagina di aver tratto la storia narrata nel suo capolavoro, il Don Chisciotte.
Più tardi, Goethe, nella cui opera la civiltà europea tocca il suo vertice, guarda al mondo arabo con il suo Divano Occidentale-Orientale, inaugurando una tradizione che comprende le poesie di Les Orientales di Victor Hugo, i gazal di von Platen, il Diwan di Gunnar Ekelof, il maggior poeta svedese del secolo scorso, e, se mi è concesso, nei Canti d’Oriente e d’Occidente, i testi che io stesso ho scritto sotto il nome di Yusuf Abdel Nur.
Se questi intrecci culturali e spirituali sono sempre stati vivi, oggi è ancora più importante ridare loro nuova energia. Dialogare forse non basta. Occorre proprio entrare in una sintonia che crei circolarità, che costruisca più nuovi e più solidi ponti.
Uno dei maggiori poeti arabi viventi, di cui mi onora l’amicizia, è Adonis. Ecco, lui è un costruttore di ponti. Nel suo scritto contenuto nella mia antologia La poesia del mondo, una summa delle tradizioni liriche dell’intero pianeta, Adonis parte da una considerazione di capitale importanza. Afferma che quando considera un poeta come al-Mutanabbi come individuo, può dire che appartiene “a un gruppo sociale denominato arabi”.Ma quando lo considera come poeta creatore, allora la sua identità supera l’appartenenza agli arabi. ”La sua identità come poeta è, infatti, quella di appartenere all’uomo in quanto uomo:energia creativa conoscitiva”.
Adonis cita Rimbaud – poeta a cui in La preghiera e la spada dedica un magnifico saggio trovando le affinità che lo legano alla tradizione mistica araba- e cita Dante, Goethe, Lorca, Ekelof. Autori a loro volta sensibili, come abbiamo visto, alla lirica e al pensiero arabo, pronti a sentirne l’eco nei loro versi.
E come nei suoi saggi ricorrono osservazioni su poeti europei, abbiamo visto per esempio su Rimbaud, o sul rapporto difficile tra la democrazia intesa in senso europeo con le società arabe, nelle sue poesie ricorrono , insieme alle immagini dolcissime e straziate di Damasco e di Beirut, le figure di Ulisse, di Orfeo, costitutive di un immaginario che non è più soltanto occidentale, ma che appartiene all’uomo, in quanto energia conoscitiva e creativa che rivendica la forza del sogno e dell’utopia.
L’uomo europeo di oggi, così bene descritto in un libro di Jorge Semprun e Dominique De Villepin, L’homme européen, sembra avere smarrito il ricordo della sua capacità di costruire simboli e di inventare futuro. L’uomo europeo , esule dal sogno di rigenerazione dopo le tragedie del XX secolo, non sa più che dire No. La letteratura, anche la grande letteratura, ha scelto sin dal Novecento la negazione, (ciò che non siamo, ciò che non vogliamo)scivolando spesso nel nichilismo. Il Si’ è decaduto. Parla di questa dinamica un libro appena uscito,intitolato Oui/non , di Fredérique Toudoire-Surlapierre. Quello dell’uomo europeo è oggi un nichilismo tranquillo, per contratto. Per l’intellettuale europeo in particolare dire No è facile, elegante, complice, un vero passe-partout. Ma a forza di dire No, si rischia di perdere ogni energia creativa e conoscitiva, ogni potenza utopica . Così l’Europa si è rinsecchita spiritualmente, e poi anche, era inevitabile, economicamente e politicamente.
Perché ci sia dialogo, incontro, occorre che ci siano due ben definite identità. L’Europa dovrebbe riprendere a scavare nel giacimento culturale della propria immensa tradizione. Vi troverebbe l’intangibilità dei diritti umani, la clemenza implacabile (Victor Hugo) che vieta la pena di morte, la ricerca della felicità, l’ansia di infinito, la passione della trascendenza, la democrazia , la libertà della donna, il rispetto per il diverso: principi non negoziabili, ma da rendere appetibili e condivisibili. Vi ritroverebbe quell’eroismo della ragione, che conduce verso speranza e rinascita, di cui parlò Edmund Husserl nella sua lucidissima e profetica conferenza di Vienna del 1935 su “La filosofia e la crisi dell’umanità europea”.
Concludo con un ricordo personale. L’anno scorso ero invitato al Salone del libro di Casablanca, a intervenire tra l’altro a una tavola rotonda su un tema non dissimile da quello di oggi. Mentre affrontavo il tema della libertà femminile, vedevo un ragazzo barbuto in prima fila diventare sempre più inquieto e quasi feroce. Tanto che mia moglie poi mi ha detto di essersi preoccupata. Alla fine del mio intervento, il ragazzo ha preso la parola e mi ha chiesto se per libertà femminile doveva intendersi anche quella che vede imperare nelle immagini di donne , così spesso inutilmente scollacciate e ammiccanti, della televisione italiana. Ho perfettamente capito il senso della sua obiezione. Ci ho ragionato con lui. Alla chiusura della tavola rotonda, il ragazzo barbuto mi si è avvicinato e , tranquillizzando così completamente mia moglie, mi ha stretto la mano. In quella stretta di mano ho sentito il senso profondo di un incontro. Incontro che è apertura, ascolto, rispetto per le ragioni dell’altro e rafforzamento nelle proprie.
La palma e l’abete si incontrano nella bellezza di un giardino. Così spero che cultura europea e cultura araba si incontrino nelle grandi costruzioni spirituali e mitico-simboliche, in quella idea di anima come energia in cui gli uomini finalmente si sentono fratelli di fronte al mistero delle cose e al desiderio di conoscenza.