Archiviato il messaggio presidenziale di fine anno, più retorico e reticente del solito (rispetto ad un Paese che ha subito più di altri la crisi e l’incapacità della politica di dare soluzioni) è finalmente giunto il tempo di “archiviare” Giorgio Napolitano, mettendo finalmente un freno alla retorica d’occasione, dispensata a piene mani dal conformismo massmediatico, celebrante l’anziano Presidente che annuncia l’imminente passo indietro. E poi per dire basta con l’immagine-slogan dell’ “uomo delle Istituzioni”, che – come abbiamo visto nell’ultimo discorso dal Quirinale – si nasconde dietro al solito elenco delle cose che non vanno: bisogna fare le riforme, bisogna sconfiggere la corruzione, bisogna che i politici facciano il loro mestiere, bisogna che l’Italia ritrovi un po’ di orgoglio. Bene, benissimo, ma nel frattempo, negli ultimi nove anni, dov’era Signor Presidente, non diciamo per dare, ma almeno per sollecitare risposte a queste autentiche emergenze nazionali ?
Alla vigilia dell’elezione del suo successore, archiviare Napolitano non è un esercizio polemico, ma una necessità politica . Ben oltre i nomi che circolano, l’identikit del futuro Presidente della Repubblica dovrebbe infatti essere “costruito” guardando all’esperienza dell’ultimo novennato al Quirinale, proprio per non riperpetuarne gli stessi percorsi politici.
A cominciare dalle evidenti “storture” costituzionali, che, dando un’interpretazione estensiva del ruolo del Presidente, hanno – di fatto – spogliato il popolo italiano del potere di scegliere i propri governanti. Da convinti presidenzialisti (laddove però il Presidente della Repubblica viene scelto dagli elettori) non disdegneremmo vedere restaurate le elementari regole della democrazia rappresentativa, riportando il confronto politico all’interno del Parlamento e ridando al Capo dello Stato il ruolo, che gli appartiene, di rappresentante dell’unità nazionale piuttosto che di “regista politico”.
Così come – a costo di apparire degli inguaribili “provinciali” – non ci dispiacerebbe vedere un Presidente della Repubblica non diciamo sgradito, ma almeno non-sponsorizzato dai circoli finanziari che, negli ultimi anni, in modo più o meno occulto, sembrano avere dettato la linea politica, con l’avvallo del Quirinale, dei vari governi succedutisi dal 2011 (da quando il “tecnico” Mario Monti venne nominato dal Capo dello Stato prima senatore a vita e poi Presidente del Consiglio).
Non si può pensare di ridurre l’orgoglio nazionale a qualche bel nome d’eccellenza , come ha fatto Napolitano durante il suo discorso di fine anno. Ci vuole ben altro. A cominciare dalla volontà di “riprendersi le chiavi di casa”, misurandosi, alla pari, con gli altri partners europei.
Per fare le riforme, per dire basta alla corruzione, per fare in modo che i politici facciano bene il loro mestiere, per ritrovare un po’ di autentico orgoglio nazionale – così come auspicato dallo stesso Presidente (quasi) uscente – c’è bisogno di riportare la politica tra la gente, di ricostruire il rapporto tra cittadini ed istituzioni, di tornare a guardare negli occhi gli italiani rifuggendo finalmente gli stantii ritualismi del “politicamente corretto” e ricominciando a fidarsi di loro. C’è bisogno di tornare a parlare con il “Paese reale”, quello dei ceti produttivi, dell’associazionismo, dei corpi intermedi. C’è bisogno di cominciare a dire qualche no, quando in gioco è la dignità nazionale (e qui, tra tanti episodi, pensiamo alla vicenda dei due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone).
In estrema sintesi: con Napolitano vorremmo vedere archiviata un’idea elitaria e moralistica della politica, sostanzialmente antipopolare dietro la sua patina perbenista. Per tornare a dare un senso alle cose. A cominciare dal nostro essere italiani.