“L’ importante è arrivare alla salvezza. Sono contento di giocare un altro anno in Italia. Molti brasiliani non si sono trovati bene, ma io sono un tipo malleabile, che sta bene con tutti, non ho problemi di caldo o di freddo”.
Josè Guimaraes Dirceu.
Il sole e la terra, la brezza alza la polvere. Più che un campo di calcio sembra una prateria arida, da Far West. Il Campione è arrivato. Qualcuno non ci credeva, non ci ha voluto credere fino a che non l’ha visto di persona. Possibile che l’uomo che trafisse San Dino Zoff, ai mondiali, abbia scelto una piazza – calcisticamente – piccolissima, minuscola, dove il calcio è una poesia pasoliniana di muscoli, botte, ginocchia sbucciate e mazzate strapaesane? Sì, è possibile. Dirceu si è fermato ad Eboli.
“Ho girato mezza Spagna per il grande Ardiles, non ho paura mica di allenare i campioni”. Osvaldo Bagnoli non lo voleva. O meglio, avrebbe preferito l’argentino. E invece, alla riapertura delle frontiere, l’Hellas Verona gli portò in ritiro Josè Guimaraes Dirceu e l’oggetto misterioso Wlady Zmuda, colosso polacco fuggito dall’Est con la fama (e solo quella) di difensore più impenetrabile del Muro di Berlino. L’estate del 1982 era stata avara di soddisfazioni per lo Zingaro. Spagna, mondiali. La Seleçao più bella di sempre s’era schiantata contro l’Italia del magnifico redivivo Paolo Rossi. Fu lo splendido seppuku del calcio carioca che, da allora in poi, per vincere, dovette vendere l’anima alla colonizzazione tattica europea. Dirceu era in panchina. Telè Santana, dopo la grande paura di Siviglia contro l’Urss, gli aveva sistematicamente preferito Toninho Cerezo. Anche per questo, forse, Bagnoli lo temeva. Temeva fosse un calciatore in declino, peraltro appena scaricato dall’Atletico Madrid, che potesse spaccargli lo spogliatoio costringendolo a reinventare ogni volta la formazione. Ma il profeta venuto dalla Bovisa si sbagliava: Dirceu prese per mano la squadra conducendola alla finale di Coppa Italia contro la Juve e ad uno storico quarto posto che sembrò far da preludio a quello che, due anni dopo con lo scudetto di Elkjaer e compagni, sarebbe dovuto accadere. Verona amò Dirceu, riamata. Poi accadde l’imprevedibile: il rinnovo non arrivò ma la chiamata del Napoli sì e il brasiliano si accasò all’ombra del Vesuvio. E, come sempre accade quando chi è troppo amato va via, divenne il Nemico.
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“Datemi un pallone”, sussurra. L’umiltà è autentica, è un uomo come tutti gli altri. Anche se ha disputato tre mondiali e svariate Olimpiadi. E adesso, appena arrivato al Massajoli, lo stadio nel cuore della città, chiede quasi sottovoce che gli passino la palla. “Datemi un pallone”. Baam! Baam! Buum! La sfera colpisce tre volte il muretto che divide il rettangolo verde (che, in verità, di erba ne ha poca) dalle gradinate. Al terzo tiro il pallone esplode, si schianta. A Eboli, uno così, non l’avevano ancora mai visto. E, forse, non lo vedranno mai più.
“Dirceu non sei più straniero: Napoli ti ha accolto nel continente nero”. Vederselo ritornare a casa con addosso una maglia azzurra, paladino al servizio di un condottiero nemico. A Verona, il ritorno (da avversario) di Dirceu fu un mezzo dramma. Che andò a sublimarsi in quella lotta senza quartiere, a colpi di cori, striscioni e sfottò che ha regalato all’Italia vette di goliardia tuttora ineguagliate. “Giulietta è ‘na zoccola”. Ma a Napoli le cose non vanno benissimo, manco se il cielo avesse ascoltato le maledizioni lanciate dal Veneto sul capo del (presunto) “rinnegato”. Il Ciuccio di Corrado Ferlaino si affida a Pietro Santini, che un anno prima aveva portato la piccola Cavese a disputarsi la promozione in Serie A. C’è Dirceu, ci sono giovani, certezze e qualche top player ante-litteram. E c’è Ruud Krol, talento impossibile che non imparerà mai a parlare italiano. Le cose, però, andranno male. Si pedala poco e il Napoli, a fine stagione, si piazzerà a un solo punto dalla terzultima retrocessa. Lo Zingaro, con cinque gol e caterve di assist per gli attaccanti, è l’uomo che ha salvato gli azzurri da una clamorosissima retrocessione. Per lui, però, spazio non ce n’è più. Nel calcio, spazio per la gratitudine non ce n’è. Ferlaino vola in Catalogna, a scippare al Barcellona il talento più grande. A Napoli sta cominciando la leggenda di D10s Maradona. Il brasiliano – per ragioni di limiti di tesseramenti stranieri – deve rifare le valigie. Lo chiama, per puro caso, l’ambizioso Ascoli di Costantino Rozzi.
Alla fine degli anni ’80, la Serie D (come oggi) è un megatorneo tra cittadine medio-piccole opposte, spesso, da tenacissime rivalità. Il calcio, però, sta diventando (quasi) una scienza. Josè si impegna a fondo per trasformare l’Ebolitana in un gioiellino di periferia. Dal Brasile arriva l’amico-allenatore Rubens. Zona alta, in un mondo pallonaro popolato da liberi sanguinari armati di catenaccio e machete. Fa arrivare al campo le primissime sagome, quelle che si usano per allenarsi a tirar le punizioni. Fa apportare alcune migliorie agli spogliatoi e si premura che tutti abbiano maglie, pantaloncini e tute sociali. La seconda maglia degli azzurri ebolitani diventa gialloverde, come la Seleçao. Dirceu dispensa consigli a tutti, compagni di squadra, tifosi e ragazzini: “Vuoi sapere come si fa a tirare forte come faccio io? Devi colpire il pallone dove c’è la valvola…”
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Campioni tristi, già. Dirceu ad Ascoli arriva praticamente da svincolato. Lo ha chiamato Rozzi, il presidente dai calzini rossi, in fretta e furia, per sostituire Ludo Coeck, colonna dell’Anderlecht sbarcato nelle Marche nell’estate del 1984. Ma era rotto. Lo sfortunatissimo Ludo (che morirà un anno dopo in un maledetto incidente d’auto) non giocherà nemmeno una partita con la casacca bianconera. E lascerà Carletto Mazzone nei guai fino al collo, scoperto fino all’arrivo del brasiliano. Le cose, però, si mettono subito malissimo e, alla decima giornata, accade l’impossibile: il presidentissimo decide di silurare il mister. Troppe sconfitte. Per sostituirlo, una mandrakata: Mario Colaussi sarà l’allenatore ufficiale. Sì, perchè dalla Spagna arriverà un uomo destinato a diventare storia, leggenda e icona del calcio italiano ma sprovvisto di patentino federale, Vujadin Boskov. L’Ascoli, però, non si salverà. Dirceu scivola in B mentre il “suo” Verona vincerà lo storico scudetto. Lo Zingaro, di nuovo svincolato, si lascia anche le Marche alle spalle. E se ne va a Como.
Essere “nomadi” è una vocazione, più che un destino. Josè, oltre a disputare la serie D con l’Ebolitana, gioca al Futsal, in serie A, al Nord. Il Futsal è la grandissima moda del momento, il calcio a cinque, il pallone democratico che consente a tutti di poter giocare senza dover fare i conti con l’immensità di un prato verde. E poi, come ogni brasiliano, a Natale se ne torna a casa. Quando non c’è lui la squadra non gira, si affloscia e le speranze di promozione si affievoliscono insieme alla classifica. Qualcuno maligna: “S’è venuto a pigliare i soldi a Eboli”. Il suo ingaggio era di cento milioni. Ma aveva accettato l’Ebolitana per cortesia nei confronti del suo presidente, Cavaliere, di cui era buon amico e perchè aveva voglia di star tranquillo, lontano dalle pressioni delle grandi piazze. E tutti, in città, lo sapevano anche chi adesso si improvvisava suo detrattore. Chi va allo stadio lo fa per soffrire, per arrabbiarsi. Se ciò vale per l’Arsenal di Nick Hornby volete che non valga per l’Ebolitana?
“Ho una squadra giovane, la guida sarà Dirceu, che fra l’ altro è già abituato a giocare in una provinciale, visto che viene da Ascoli. Manca un giocatore esperto per il centrocampo: sono stati fatti i nomi di Casagrande, Icardi e qualcun altro, vediamo chi arriverà”. Roberto Claguna, allenatore del Como 1985-86, alla presentazione del ritiro precampionato, alla “Repubblica”. La star di quella squadra, che s’era salvata alla grande l’anno precedente grazie ai suoi gol, era il campione (sfortunato, maledettissima Sla) Stefano Borgonovo. Però, come troppo spesso accade quando si finisce a frequentare i piani bassi della classifica, l’allenatore finisce esonerato. E la società si affida a qualche espertissimo. Capitò, in Lombardia, il decano Rino Marchesi. Di cui, Dirceu, non era certo il pupillo. L’anno finirà con venticinque presenze e due gol, salvezza acquisita e valigia di nuovo in mano. Destinazione Avellino.
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Per strada, in piazza, su viale Amendola, tutti lo riconoscono e tutti lo fermano. Lui non si nega a nessuno. Che sia per un caffè o per una partitella a calcetto. Ha sempre il borsone pronto, in auto. “Se potessi giocherei sempre”. Lo diceva e tutti gli credevano, perchè, sulla soglia dei 40 anni, era ancora lì pronto a calciare una palla ovunque dove glielo chiedessero. Come quando era bambino, sfondava finestre, rompeva i vasi e mamma Diva Delfina andava fuori di matto. L’ultima prova l’aveva data quando era arrivata la capolista Juve Stabia allenata dall’ex leggenda del Napoli Canè. Un gioiello su punizione, insaccato proprio sotto la curva ebolitana. Una magia preziosa, uno sgarbo alla boriosa prima della classe. Un miracolo balistico nel pallone proletario della serie D degli anni ’80. Adesso, però, è tempo di andare. Ad Eboli si è fermato già troppo, due anni, è tempo di rifare le valigie.
Non lo sa ancora nessuno, ma quello sarà il canto del Cigno. In Irpinia, il trentaquattrenne Dirceu conduce l’Avellino di Luis Vinicio, ‘o Lione, alla sua ultima, esaltante stagione in serie A. Il brasiliano prende in mano le redini della squadra e segna a ripetizione. Specialmente sui calci di punizione, la sua specialità. E’ il perno del calcio totale all’irpina secondo l’adattamento di Vinicio. Che porta l’Avellino ad un onorevolissimo ottavo posto, a cinque lunghezze dalla qualificazione in Coppa Uefa. E a togliere ai tifosi qualche soddisfazione, tipo le vittorie casalinghe contro la Roma di Sormani ed Eriksson e contro il Milan dell’alba berlusconiana. Quel campionato sarà storico per un’altra ex del brasiliano. Trascinato da Maradona, il Napoli conquista il primo scudetto della sua storia. Quell’anno sarà l’ultimo di Dirceu in A e il penultimo dell’Avellino in massima divisione.
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Rio de Janeiro, 15 set 95 (Adnkronos/Dpa)- E’ morto questa mattina in un incidente automobilistico a Rio de Janeiro Dirceu Guimaraes, 43 anni, uno dei giocatori brasiliani piu’ amati e che per anni ha militato nel campionato italiano. Nell’incidente, occorso questa mattina a Barra da Tijuca, un’elegante quartiere nella zona occidentale della megalopoli brasiliana, e’ morto anche un impresario italiano amico di Dirceu.
Eboli non dimenticherà il Campione. Qualche anno dopo, il nuovo stadio, moderno e tra i più grandi della provincia di Salerno, porterà il suo nome. Perchè chi ama non dimentica, soprattutto in periferia. Soprattutto lì, dove s’è fermato Cristo.