Molti pensatori, scrittori, poeti si sono cimentati con il tema del tempo, tema che contiene la vita, la storia, il passaggio da una generazione a un’altra. Un grande scrittore francese, membro dell’Academie Française e direttore di Le Figaro per molti anni, Jean d’Ormesson, nel suo ultimo libro (Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto, Edizioni Clichy, pagg. 249, euro 15) affronta, fra le tante cose, anche il tema del tempo dal punto di vista filosofico ma anche esistenziale, come componente della vita di ognuno ma anche dei popoli e della storia. D’Ormesson ha trattato in molti dei suoi romanzi – mai romanzi-romanzi, per usare un’espressione cara a Georges Simenon, ma nello stesso tempo romanzi e saggi e riflessioni sull’esistenza, sui sentimenti, sulla vita, sull’umanità – il tema del tempo. Ritornarci più volte per lui forse ha il senso di esorcizzarlo ma anche di comprenderlo, penetrarlo fino in fondo.
D’Ormesson spiega l’importanza e i percorsi storici che hanno portato alla definizione del calendario. Da quello giuliano, fondato da Giulio Cesare su consiglio dell’astronomo greco alessandrino Sosigene, a quello inventato a tavolino da papa Gregorio XIII che decise di cancellare dieci giorni della vita e della storia del mondo e delle civilità, dal 4 al 15 ottobre del 1582, per far “quadrare” il proprio calendario. Poi, quelli decisi dalla Convenzione nazionale francese della Rivoluzione, con nomi un po’ ridicoli, che intendevano fondare e dichiarare una nuova era, un po’ come nel Novecento fece il fascismo. D’Ormesson non manca di affrontare, sempre con la sua penna leggera e la scrittura accattivante, anche le teorie scientifiche sul tempo, da Bohr a Heisenberg, da Newton a Einstein senza dimenticare Cartesio.
Lo scrittore francese non manca di analizzare la percezione dello scorrere del tempo nella nostra attuale e decadente società (“una delle chiavi evidenti e segrete di questo mondo in cui viviamo è che passa il suo tempo in un eterno presente che svanisce continuamente. Fra un futuro che non esiste ancora e un passato che non esiste già più si insinua una pura astrazione, una sorta di sogno impossibile”). Ma d’Ormesson non dimentica il paradosso che rappresenta il tempo stesso: “La sua dittatura ci sembra andare avanti da sé”. E osserva un dato sconvolgente e fallimentare per la potenza espressa dall’uomo europeo con la tecnica: “Siamo vincitori dello spazio che è la forma della nostra potenza. Siamo vinti dal tempo che è la forma della nostra impotenza”.
Certo, Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto non affronta solo il tempo ma anche la gioia, il dolore, la vita, il lavoro, i viaggi e la storia antica e quella passata nel Novecento. Jean D’Ormesson, a 89 anni (è nato a Parigi nel 1925) descrive i recessi dell’animo umano con una lucidità e una poesia che lascia stupiti e sospesi fra l’ammirazione e, forse, anche la scoperta di alcuni aspetti di noi stessi che non avevamo mai preso in considerazione. Non manca qualche lieve svista: l’America fu scoperta dal comandante genovese Cristoforo Colombo che usufruì di finanziamenti e di tre caravelle messe a disposizione della Corona spagnola e non fu scoperta dagli spagnoli tout court (cfr. pag. 33) così come è incompleto definire Federico II di Hohenstaufen imperatore “mezzo tedesco e mezzo normanno” (cfr. pag. 34) visto che nacque in Italia, a Jesi, e visse la propria esistenza in Italia, stabilendo la propria corte a Palermo e uno dei suoi luoghi di maggior elezione la Puglia, dove morì nel 1250 a 56 anni (i suoi due soprannomi erano Puer Apuliae e Stupor Mundi: un motivo ci sarà).
Il libro di d’Ormesson, tra l’altro, è ben tradotto da Tommaso Gurrieri a parte la lieve imprecisione a pag. 129 dove il famoso romanzo erotico di Guillaume Apollinaire Les Onze mille verges, cioè le Undicimila verghe, è tradotto come Centomila vergini. Poco male, se si pensa che l’assonanza fra verges e vierges, era studiata e voluta da Apollinaire. D’Ormesson è un autore da leggere e da conoscere.
Insomma, il tempo passa, ci precede e, se è passato, è passato così, senza rimpianti. Alfredo Cattabiani e Franco Cardini hanno scritto libri mirabili sul calendario, sul tempo e sulla concezione del tempo nelle civiltà, una sorta di telaio sul quale i popoli hanno filato e filano la propria storia.
Ora si aggiunge un altro tassello a questo lavoro di scavo. Maurizio Ponticello, scrittore, studioso di tradizioni, è autore di un libro di particolare interesse che affronta proprio tutti gli aspetti del tempo: I pilastri dell’anno. Il significato occulto del calendario (edizioni Mediterranee, pagg. 270, euro 22,50). Ponticello, già autore di lavori sulle tradizioni popolari e anche di studi tradizionali, indaga sui segreti del calendario che, dietro l’aspetto di elenco continuo di giorni e feste e mesi e anni, in realtà nasconde realtà poco conosciute e segreti avvolti nel mistero.
Ponticello sottolinea che il tempo cosmico, il trascorrere del tempo e quindi il succedersi delle stagioni, hanno effetti sulla natura. Infatti, muta il clima, i colori di alberi e piante, le giornate sui accorciano o si allungano. Ma il passaggio di stagioni ha anche riflessi sull’uomo. Ponticello analizza il dato secondo il quale le ricorrenze e le feste in senso stretto spesso hanno origini molto differenti da quelle che vengono oggi giorno spiegate e indicate.
Con l’alternarsi delle stagioni, quindi con il passare del tempo, si susseguono rituali, vengono vissuti e rispettati miti che Ponticello esplica, compara. Realtà appartenenti a varie realtà geografiche e storiche arrivando ad analizzare perfino realtà dell’India.
Una sequela di narrazioni, miti, rituarie, tutto sottoposto al trascorrere del tempo. Secondo Ponticello, ma anche secondo tanti maestri del pensiero tradizionale, è importante risalire alle proprie vere radici e comprenderle fino in fondo per poter raggiungere la consapevolezza di sé e del mondo. Questo in quanto, come molti insegnamenti tradizionali spiegano, il rapporto fra l’uomo e il mondo è esattamente quello fra microcosmo e macrocosmo. Non solo: con la fine del paganesimo in Europa la Chiesa avviò una progressiva sovrapposizione delle chiese cristiane sui templi antichi e le feste pagane furono via via “adottate” dai cristiani e trasformate per soppiantare la sensibilità classica. Un esempio? La festa di Halloween, definita la festa del male, non è altro che l’antica festa celtica di Samhain: la celebrazione dell’autunno, mentre il 25 dicembre, giorno in cui si festeggiava il Solstizio d’Inverno, è diventato il giorno natale di Gesù Cristo. I cristiani che festeggiano i Vangeli apocrifi infatti non festeggiano la Natività in quella data.
In altre parole, affrontando la festa di Mithra e quella di Santa Lucia, da San Martino a Santa Claus a Rex alla Candelora ai fuochi di Sant’Antonio e al Carnevale, per giungere al Calendimaggio fino alle streghe di Valpurga, poi la festa di San Giovanni e i fuochi di Ferragosto, Ponticello riproduce e narra i ritmi cosmici. Scrive, in questo modo, una sorta di “breviario dell’Universo” che riproduce una geografia mitica, tradizionale del tempo e dell’uomo che ci vive all’interno. Leggere questo libro significa riappropriarsi di elementi della tradizione più antica dell’Europa e trovare risposta a domande che talvolta l’uomo talvolta si è posto senza trovare soluzioni.