Siamo stati facili profeti. In effetti, ci voleva poco. Ci voleva davvero poco a immaginare, grazie a una facile aritmetica, che la destra – o, come piace dire agli “inclusivi” – le destre, sarebbero uscite polverizzate da questa tornata elettorale. I risultati risibili di Fli e della Destra, poi, se vogliamo hanno peggiorato le cose. Per cui i parlamentari che possono vantare un’esperienza passata in Alleanza Nazionale o nel Movimento sociale, ormai, si possono contare sulle dita di un paio di mani, o poco più. Nel tripolarismo-e-mezzo che adesso lascerà l’Italia a galleggiare in una isterica ingovernabilità, per i nipotini della Fiamma non c’è spazio. Non ci sono. I pochi, sono ininfluenti, giusto la consolazione, per quei pochi, di darsi una pacca sulla spalla in Transatlantico con la mesta soddisfazione degli scampati a un eccidio. Non c’è destra nel grillismo, che è altro. Non c’è destra nel montismo. Ma non c’è destra – e tocca spiegarlo bene a chi qualche giorno fa invitava qui a votare PdL “turandosi il naso” – neppure nel PdL, che in questa fase, e pure legittimamente, si è totalmente berlusconizzato, finendo per assomigliare al suo presidente più di quanto non fosse omogenea al berlusconismo la Forza Italia del 1994.
A destra nessuno ha avuto la voglia o il coraggio di intestarsi un nome altrove utilizzato malissimo, Rivoluzione civile, e alla fine il dazio, il dazio pesante, come ho già scritto, corre il rischio di pagarlo la “generazione maledetta” che all’epoca di tangentopoli aveva tra i 15 e i 25 anni, che è entrata nella seconda Repubblica come sorridente massa d’urto e che oggi, nella fase in cui dovrebbe naturalmente diventare la nuova classe dirigente, si trova di fronte qualcosa di peggio di un deserto. Perché il deserto, perlomeno, è pulito e asettico. No: si trova di fronte a macerie, per giunta maleodoranti. Ai cadaveri appesi di un’eterna promessa mai sbocciata. Ai brandelli di bandiere sventolate male, e spezzate dal vento della corruzione morale. All’unica eredità che gli attuali 50-60enni hanno lasciato ai più giovani: il nulla. Ma non un nulla vuoto: un nulla pieno di sdegno. Un nulla pieno di imprese fallite. Un nulla culturale. Un nulla politica. Un nulla, dunque, colloso, appiccicoso, denso di incognite, prima delle quali da dove ripartire, e come, di fronte alla Bestia che i teorici delle élites e i diffidenti verso la politica delle masse conoscevano bene: il rifiuto della politica organizzata tramutato nella convinzione che, in questo mondo di ladri, una casalinga pescata a sorteggio può diventare ministro dell’Interno. La riedizione, un secolo dopo, dell’idea leninista della cuoca al governo. L’andata in malore dell’idea nobile della democrazia diretta. Machiavelli aveva già identificato gli elementi della democrazia tumultuaria. Ugo Foscolo, in una citazione che un poco scopiazza letterariamente proprio Machiavelli, scrisse: «Per avere i plausi della moltitudine conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre». Ecco. Il punto da cui partire è proprio questo.
Negli anni Novanta sono stato tra quelli che, prima di farlo diventare un termine di moda, ha sempre cercato di rintracciare la “fonte amorevole” del populismo, la traccia buona della lotta anti-establishment, e i caratteri positivi delle leadership mediatiche contemporanee. Ciò che Berlusconi ha rappresentato nel mondo mediatico 1.0, adesso Grillo lo rappresenta nella piattaforma sconfinata del 2.0. Di fronte a ciò che accade, il pensiero deve rimettersi pancia a terra e analizzare, studiare, capire. Non è più il tempo degli esercizietti letterari o delle analisi di facile politologia sul governo dei banchieri o i post-comunisti. Adesso la campagna elettorale è finita e le retoriche, alcune delle quali patetiche, utilizzate in questi mesi, possono tranquillamente essere buttate nello scantinato. Abbiamo scritto già tempo fa che forse è arrivato il momento di “rifondare” culturalmente una destra in Italia. A maggior ragione, di fronte a questo sfacelo, un minimo di senso di responsabilità spinge ancora più forte in questa direzione. Ma il punto da cui partire è il rifiuto alla base proprio dello spirito di chi ha invitato a votare PdL “turandosi il naso”, nella malsana idea che il meno peggio di un anticomunismo retorico fosse meglio, per dire, di un governo Bersani. Scelta individualmente legittima, ma che con l’idea di rifare la destra non c’entra niente.
Secondo punto: siccome qui la base di discussione è la presa d’atto di un fallimento storico e, di conseguenza, l’indisponibilità di una generazione a farsi condannare per concorso esterno in questo fallimento politico, culturale, antropologico, non è il tempo delle mezze misure o dei pasticci tipo “i rassemblement delle destre”. Ovvero mettere assieme i cocci, i rimasugli del fallimento (sia politici sia culturali: c’è qualche “intellettuale” che sulla coscienza porta il peso di grandi corresponsabilità), nella sciocca speranza che l’adunata dei reduci sia un’altra forma di male minore. Se qui qualcuno ancora non l’ha capito, la seconda Repubblica è finita. Tramontata. Volatizzata. A prescindere da quanti voti ha preso la coalizione berlusconiana o il centrosinistra. Nel nuovo scenario, il primo problema è capire se c’è ancora spazio per una destra: ma se c’è, dev’essere una destra che questa nazione nella seconda repubblica ancora non ha conosciuto. Che si riprenda i temi della sovranità, del nuovo patriottismo, della cittadinanza attiva, della legalità. Che ricominci di corsa a ragionare di modelli di welfare e politiche del lavoro. Che stabilisca un fossato invalicabile tra il suo esperimento e lo sfascio etico e morale che già troppi danni ha fatto nel vecchio centrodestra. E che, per fare tutto questo, ricominci a praticare con umiltà la strada dell’elaborazione culturale, intendendo con questo non le pur lodevoli interviste a questo o quel giornalista o scrittore, o la pratica ormai stantia del non-conformismo. No, una destra che faccia tutto ciò che dal 1994 non è mai stato fatto, se non a slogan: immaginare una società nuova, studiare il linguaggio della contemporaneità, smetterla con le inutili retoriche tradizionaliste che partoriscono comportamenti opposti, chiamare a raccolta tutti coloro che hanno buone idee da fornire, in chiave di analisi e di soluzioni, sulla politica internazionale, l’economia industriale, la società delle reti, i nuovi modelli di famiglia. E così via. Una mole gigantesca di cose da fare. Una missione, magari, destinata a naufragare. Ma meglio naufragare che morire di fame in un porto dove tutte le navi sono bruciate e, fuori dalle mura, i barbari chiedono sangue.