Non si riflette mai abbastanza al fatto che vi sono due maniere di «avvertire», di pensare inconsciamente l’idea di nazione, due maniere che scaturiscono direttamente dalla dicotomia caratterizzante la storia dell’Europa occidentale. Se ci accordiamo — salvo meglio precisare il concetto in seguito — di considerare la nazione come una comunità fondata su (e da) una lingua, una civiltà e una «sorte comune», ci si accorge immediatamente. per esempio, che nel caso della Francia la nazione è nata dall’impresa laboriosa di uno Stato («i quaranta re…»), mentre nel caso della Germania o dell’Italia lo Stato ha costituito l’esito, la «traduzione» in termini politici, di una coscienza nazionale che si era infine destata. Ciò che potremmo chiamare una «nazione-effetto» si oppone così a una «nazione-causa».
Nell’«esagono» francese di cui i Romani, con la loro amministrazione, avevano per primi tracciato i contorni approssimativi, popolazioni ben diverse si erano sovrapposte o si affiancavano dopo la decomposizione dell’impero. Nella stessa epoca, ricordiamolo, il concetto di gentes si rivelava insufficiente a cogliere le nuove realtà etnopolitiche, e lasciava il posto poco a poco a quello di nationes. Tutti sanno come in seguito una di queste «nazioni» comprese nell’Esagono, la nazione franca, dovesse ridurre le altre ed assimilarle, imponendo loro, talvolta con la forza, la sua lingua, la sua concezione del diritto e la sua civiltà. Questo processo di assimilazione non si è compiuto senza «sbavature» ed esse sono ancora perfettamente percepibili nella realtà politica «francese» di oggi. E’ evidente nondimeno che le antiche «nazioni» non-franche, anche quando ne sussistono emanazioni folcloristiche tuttora viventi, sono private, piaccia o no, di ogni vis politica. foss’anche potenziale. Ciò è talmente vero che i gruppi autonomisti non possono pensare l’autonomia delle loro etnie in una prospettiva in cui gli Stati esistenti fossero conservati (cioè nell’ordine politico internazionale attuale), e invece sono obbligati a proiettare l’idea autonomista in una prospettiva futura, europea (europeista) secondo alcuni, universale (universalista) secondo altri.
Senza esserne talvolta pienamente coscienti, riconoscono così che essi non potrebbero essere realmente differenziati, cioè separati in rapporto alla Francia, fuorché un mondo in cui non vi fosse più né Francia, né d’altronde Inghilterra, Italia, Germania, Belgio o Paesi Bassi.
Se si esamina ora il caso della Germania o dell’Italia, ci si accorge come Il panorama storico che si presenta ai nostri occhi sia rigorosamente differente, come si caratterizzi per tratti antitetici al panorama francese. I re franchi avevano in un certo senso «rovesciata» l’eredità politica romana. Essendosi separati dall’Impero a partire dall’843 (firma del trattato di Verdun). essi avevano parimenti rigettato l’idea imperiale, per votarsi ad un’impresa mirante alla riduzione al modello franco delle realtà etnopolitiche allora comprese nell’attuale territorio francese. Fu ciò che si può chiamare il regnum: il potere politico non organizzava più nazioni (prese in quanto tali nell’ambito dell’Impero) ma classi, certo originate più o meno dalle «nazioni», ma che di tale origine avrebbero rapidamente perso il ricordo. Al di là dei Vosgi, al contrario, presso i Teutschen, così come in Italia, l’idea di imperium restava presente, non cessava di assillare gli spiriti e dominava tutte le imprese politiche.
Quest’idea, bisogna dirlo, non aveva allora che un carattere perfettamente irrealista. Il Sacro Romano Impero germanico (Heiliges Romisches Reich Deutscher Nation) non ebbe affatto più dell’apparenza di se stesso, quantunque l’idea imperiale fosse ancora abbastanza potente per imporre una «struttura» identica al destino dei popoli che ad essa si richiamavano. Dalle antiche nationes si formarono nel suo seno altre nazioni, ma esse non poterono mai acquisire una vera e propria coscienza politica. perché l’idea imperiale ereditata da Roma vi si opponeva. Così, Dante, per il quale l’uomo italiano si afferma in quanto fatto di lingua e di civiltà, invoca con tutti i suoi voti il veltro (il dux), cioè il Sacro Romano Imperatore, che è un tedesco. Dante, filo-imperiale, ma pur sempre fiorentino. vede nei suoi vicini pisani il «vituperio delle genti». Per lui l’Italia non è che «il bel paese ove il sì risuona». A quest’epoca, non vi è dunque una Germania, un’Italia, ma solo dei Tedeschi, solo degli Italiani.
Perché una coscienza nazionale politica italiana o tedesca nascesse, era necessario che l’«apparenza» imperiale stessa svanisse. E’ ciò che si verificò, in modo lento e impercettibile, sotto i colpi di una Storia sempre brutale per coloro che si ostinano in un sogno. La guerra dei trent’anni, le dominazioni straniere che fecero dell’Italia un campo di battaglia umiliato e sanguinante, marcano i punti culminanti di questo processo. Ma ciò era ancora insufficiente. Bisognava ancora che sparisse e crollasse tutto ciò che, nei fatti, era legato per opposizione all’Impero: in primo luogo la chiesa cattolica, che ne era l’antitesi intima, e per altro verso il Regno, che ne era l’antititesi esterna. Il che si produsse sotto l’influenza della rivoluzione del 1789, che costituì il compimento di un’evoluzione storica particolare della Francia; poi del Romanticismo, che al contrario reagì (in Germania almeno) alla diffusione delle idee rivoluzionarie.
Nato da una negazione assoluta dell’idea di Impero, il regno di Francia aveva affermato, implicitamente come nei fatti, la supremazia di una natio sulle altre. Un’aristocrazia feudale di orígine germanica vi giocava, all’inizio, un ruolo abbastanza analogo a quello delle gentes romane nella nascita della civitas. Ma questa aristocrazia, per il fatto di non esprimere il potere sovrano, perse a poco a poco i suoi contorni etnici e la sua coscienza storica. Ciò avvenne in modo abbastanza complesso. L’aristocrazia francese si era trovata ad essere obbligata ad assimilare le aristocrazie delle altre nationes incorporate nell’Esagono. Ora, queste aristocrazie perpetuavano tendenze centrifughe apposte al tentativo reale di centralizzazione. In base a ciò, i re dovettero combattere la classe aristocratica, o perlomeno opporsi a talune sue pretese, anche se questa classe era stata in origìne uno dei pilastri del potere reale. Sappiamo cosa ne deriva. Avendo Luigi XIV definitivamente privata l`aristocrazia dei suoi poteri, avendola svuotata del suo significato politico e avendola trasformata in classe parassitaria grazie alle seduzioni di quella prigione dorata che fu la corte di Versailles, la rivoluzione diventava inevitabile. La rivoluzione francese tu essenzialmente antiaristocratica, prima di essere antimonarchica. al punto che non è esagerato dire che i «grand ancêtres» del 1789 non fecero in fin dei conti che spingere fino al suo termine naturale un processo che i «quaranta re» avevano già sviluppato durante i secoli.
Questo amalgama che era la nazione francese, entrato nei fatti con la Rivoluzione, non fece che prendere atto di ciò che la classe privilegiata aveva perduto: con le proprie responsabilità, aveva perduto anche la sua giustificazione. Si arrivò così al concetto di Stato-nazione, che andava poco a poco ad imporsi, lungo il corso delle guerre rivoluzionarie, alla coscienza dei popoli europei. Formata infine, o più esattamente creata, dallo Stato, la «nazione» francese poteva ormai rivendicare la proprietà di questo medesimo Stato. Fu Ia repubblica francese.
Di fronte a questa nazione trancese (e tanto più che essa era divenuta conquistatrice, sotto Napoleone) i popoli d’Europa, essendosi riconosciuti in quanto nazioni, vollero naturalmente esprimere parimenti il loro proprio Stato. In Germania e in Italia, questo movimento politico di «indipendenza» e di «unificazione nazionale» si confuse, sul piano delle idee, col romanticismo. Ma, siccome l’eredità storica era del tutto differente da quella della Francia, molti romantici italiani e tedeschi concepirono la nazione, e il diritto della nazione ad esprimersi in quanto Stato, in una forma radicalmente opposta alla concezione francese. Vi fu certo una corrente romantica (italiana e tedesca) che accetto le idee francesi tali quali erano, ovvero in quanto esse portavano ad un superiore grado di coscienza la volontà egualitaria cristiana.
Non è evidenternente di questa corrente che noi trattiamo qui, ma del romanticismo più autenticamente italiano e tedesco, da cui sgorga, fino alla prima metà di questo secolo il «destino parallelo» dei popoli di questi due paesi. La nazione concepita dalla rivoluzione francese è una nazione democratica, fondamentalmente centralista, egualitaria e «anticlassista», seppure il suo egualitarismo ed «anticlassismo» non apparissero che sotto forma di un rilievo negatìvo, figurante nella legge. Al contrario la nazione dei «romantici» (prendiamo questo termine nel senso ristretto sopra specificata) non è di per se stessa né egualitaria né demo cratica né centralista.
Ugualmente, dal punto di vista della logica «rivoluzionaria», una nazione, ogni nazione, è uguale di diritto a un’altra, a tutte le altre. Non è così invece nella concezione romantica italiana o tedesca, e lo stesso linguaggio si sforza di esprimere la differenza (là dove i francesi parlerebbero di nation, i tedeschi parleranno piuttosto di Volk). E così che il pur clericale Vincenzo Gioberti proclama a gran voce il primato degli italiani, mentre Johann Gottlieb Fichte [alias] vanta l’unicità del popolo tedesco, unico Volk in un mondo ove non rimangono altro che masse.
Tutto ciò si spiega abbastanza facilmente. In Francia, il passaggio dalla nozione di Impero a quella di Regno comportava già, nei fatti, una sorta di «restringimento» dell’orizzonte geografico e mentale. II risultato obbligatorio di un tale ripiegamento su se stessi era la«France seule». E questo ripiego implicava anche, a più o meno lungo termine, che fosse riconosciuta l’eguaglianza con le altre nazioni, con l’Altro tout court. Al contrario, la fedeltà alla nozione di Impero doveva necessariamente sfociare nella visione di un vero e proprio «cosmos politico» comprendente tutti i popoli in un’organizzazione gerarchica. Nel momento in cui la coscienza nazionale dei popoli faceva la sua entrata sanguinosa nella storia d’Europa, Ludwig van Beethoven fa esplodere lo spirito del suo tempo componendo quella meravigliosa Nona Sinfonia [CD]che è l’inno alla gioia di tutta un’umanità la cui storia è divenuta planetaria. Lo stesso Beethoven straccia la dedica della sua Eroica quando Buonaparte viene cancellato da Napoleone, ma, d’altro lato. è assolutamente incapace di immaginare il canto del ritrovarsi dei popoli riuniti nel nuovo cosmo, senza un corifeo che lo susciti, lo conduca e l’organizzi. Ritroviamo qui, inestricabilmente mischiate, le «due anime nemiche» che abitavano il petto dei romantici…
Ritorniamo all’idea romana di imperium, ed alla traduzione politica che ne è stata data. Le prime società indoeuropee, quali possiamo conoscerle tramite gli studi comparativi, rendono manifesto un contrasto abbastanza strano tra la severa disciplina esistente in seno alla cellula sociopolitica di base, la «famiglia patriarcale», il clan, e la tendenza invece abbastanza pronunciata ad una certa anarchia per tutto ciò che concerne i rapporti di queste cellule fra di loro. Di fatto, questo contrasto, che è strettamente legato alla dinamica della storia indoeuropea, non ci appare tale che in una prospettiva moderna. La realtà sociopolitica dell’epoca lontana (gli inizi del neolitico), in cui gli indoeuropei prendono posto nella storia, non è altro in effetti che quella di un gruppo ristretto: il clan. E i rapporti tra i clan sono pressapoco della stessa natura dei rapporti che si stabiliranno, in altre epoche, tra le città o tra gli Stati. Da ciò l’impressione, piuttosto illusoria, di «anarchia» che si può ricavare quando si prenda in considerazione l’unità etnica degli indoeuropei e si cerchi di sapere a cosa assomigliasse la loro società.
Ora, non esisteva una società indoeuropea. Gli indoeuropei non concepivano sul piano sociopolitico alcuna grande unità, per l’eccellente ragione che essi non avevano (e non potevano avere) coscienza di ciò che, a nostri occhi. faceva la loro unità. A questa coscienza, gli indoeuropei non poterono pervenire che progressivamente, quando, in un’epoca molto più tarda, cominciarono a uscire dal loro isolamento e si trovarono a confrontarsi con altre etnie, con altre civiltà. Ciò non avvenne d’altronde con facilità, e quasi mai completamente. Le grandi coalizioni «supertribali» che si formarono in occasione di spedizioni migratorie e dei primi insediamenti in nuovi paesi, in mezzo a popoli differenti, furono generalmente di breve durata, e tesero a dissolversi. L’istituzione del potere regale, che, all’origine, assicurava unicamente l’organizzazione e la disciplina dell’orda nel corso dei suoi spostamenti (il re essendo etimologicamente «colui che mostra la strada da seguire»), non ebbe all’inizio che un carattere elettivo e provvisorio. Quand’essa tese, per sua propria natura, a consolidarsi ed a divenire ereditaria, incontrò sempre la resistenza dei capi dei clan, una volta completata la conquista.
E’ per questa ragione che la storia iniziale dei gruppi indoeuropei emigrati sotto altri cieli si confonde spesso con la lenta degradazione di un’autorità monarchica e la «ri-atomizzazione» del gruppo. Fu il caso, segnatamente, dei Greci e dei Celti. Altrove, l’istituzionalizzazione della monarchia si verificò, ma a spese di tutta una tradizione indoeuropea (tradizione culturale, ma anche genetica). Ciò avvenne presso i Nesos, che persero il loro nome per diventare gli Ittiti, e presso certe tribù germaniche che esaurirono il loro slancio sulle rive del Mediterraneo.
In generale, i popoli indoeuropei hanno perfettamente percepito la necessità di preservare la propria originalità, pur accettando le conseguenze dell’allargamento dell’orizzonte culturale e geopolitico che imponeva loro il trionfo progressivo della «rivoluzione neolitica». Ma, limitandoci al mondo antico, soltanto i Romani sono riusciti a operare una sintesi tra perennità, fedeltà a se stessi ed alle proprie origini, ed accettazione piena e intiera della loro «intricazione cosmica». Questa sintesi porta un nome, inciso nella storia in lettere capitali: l’imperium.
Diciamolo subito: la nozione di imperium non deve essere confusa con quella di Impero, fosse anche romano. Non c’è alcun dubbio in effetti, che 1’imperium ha trovato la sua verità e la sua più perfetta realizzazione nello sforzo di costruzione della Roma repubblicana, più che nell’impresa di mantenimento dell’Impero postgiuliano. Di fatto, l’imperium riflette una volontà di ordine cosmico, ed è quest’ordine che organizza gerarchicamente le gentes. In teoria come in pratica. 1’imperium si situa agli antipodi di ogni «universalismo». Esso non intende affatto ridurre le umanità a una sola e medesima umanità, ma cerca al contrario di preservare le diversità in un mondo necessariamente votato all’unificazione.
I Romani non volevano che preservare la loro propria città, il loro proprio jus (poiché, per temperamento, concepivano tutto per il tramite del rito e del diritto). Ma, presso di loro, questa volontà di autenticità implicava logicamente il riconoscimento dell’Altro. È in questo che consiste la loro grandezza politica — del che, tra parentesi, furono sempre perfettamente coscienti. E potremmo quasi affermare che l’impresa di conquista per Roma non fu che il «risvolto» di un’altra impresa, questa puramente difensiva. Non bisogna dìmenticare che dopo tutto il termine urbs viene da una radice indoeuropea che significa all’origine «rifugio protetto dalle acque». In un mondo in cui, a causa della rivoluzione neolitica, i popoli erano usciti dal loro isolamento ed entravano in un insieme complesso dì relazioni sempre più strette, l’imperium romano corrispondeva dunque a null’altro che all’allargamento progressivo della cinta protettrice dell’urbs. Costituiva il bastione dietro il quale il civis romanus era sicuro di poter vivere secondo il suo ritmo e il suo diritto, nella misura precisamente in cui gli altri, per necessaria differnziazione e logica reciprocità, godevano della stessa garanzia.
Rifiuto organizzato e cosciente di ogni universalismo, di ogni reductio ad unum, l’imperium è tuttavia politico, cioè realista, e non utopico. Esso è gerarchizzato. Ciascuno vi conserva ii proprio jus, il proprio diritto: ogni popolo è libero di amministrare la sua città secondo la propria giustizia tradizionale. Ma nei rapporti che si stabiliscono tra individui di diverse città, o tra le città stesso, lo jus romanus prevale sempre sullo jus latinus, che a sua volta prevale su tutti gli altri. E là dove né lo jus romanus né lo jus latinus sono applicabili subentra lo jus gentium, astrazione prettamente romana per identificare ciò che sarebbe comune (o va comunque applicato) ai jura di tutti i popoli. In seno all’imperium Roma gode dunque di una primazia assoluta, che si esplica dei tutto naturalmente, e in perfetta giustizia, per il fatto che è essa che ha concepito e creato, che organizza e assicura quest’ordine in seno al quale ciascuno riceve il dovuto che gli è stato attribuito da una Storia che è fatum.
Nel loro sogno d’artisti, i Greci avevano tentato anch’essi di realizzare la sintesi tra la fedeltà a ciò che erano e le esigenze fatali del loro impegnarsi in un mondo «allargato»… ma allargato soltanto nei limiti della ellenità. Si erano sforzati di conseguenza di «addomesticare» la guerra, ritualizzando l’aggressività naturale per mezzo di un’agoné (competizione) che abbracciava tutte le manifestazioni civili all’interno della polis. Con le Olimpiadi essi avevano ugualmente voluto assicurare, perlomeno periodicamente. un ordine panellenico. E la pace instaurata da quest’ordine sgorgava, significativamente, dalla messa in scena trionfale dell’agoné.
Questo sogno ellenico, Roma l’ha vissuto e l’ha fatto vivere al mondo intero. I Romani non «addomesticano» la guerra. Tutto al contrario, essi la istituzionalizzano, sapendo che la guerra non è che uno dei due spettacoli perpetuamente offerti allo sguardo del dio bifronte. Perché la pace, la pax romana, è anch’essa istituzionalizzata. Essa non è più la contropartita di un gioco che permetta di «addomesticare» la guerra, ma la contropartita, all’interno dell’imperium, dell’ordine scaturito dalla guerra, ed anche dell’accettazione del principio dell guerra permanente tra i popoli dell’imperium e quelli che ancora non ne fanno parte. E poiché l’imperiurn rappresenta l’ordine consacrato dal fatum, molti popoli finiscono per fare appello ai Romani e domandare l’ammissione all`impero (salvo tentare di ritirarsene, una volta sistemati i propri affari: come i Galli, che fanno appello a Roma contro i Germani, quindi si ribellano, senza successo d’altronde, contro l’ordine cui essi stessi hanno fatto ricorso).
«Regere imperio populos, Romane, memento / parcere victis ac debellare superbos»: tale la definizione che il poeta gallico che fu Virgilio propone della missione che i Romani si erano dati. Definizione tanto giusta che, quando Roma sarà sparita, i popoli d’Europa sentiranno vivamente ancora la nostalgia dell’ordine romano, e tenteranno vanamente, con tutti i mezzi, di ristabilirlo. Roma diventerà allora sinonimo di «ordine politico», e si darà il nome di Caesar, l’imperator per eccelienza, ai titolari del potere sovrano incaricati di assicurare l’ordine.
Si potrebbe forse obbiettare che l’imperium condusse di fatto a quell’universalismo, a quel caos etnico che intendeva ricusare, e, d’altra parte, che esso non poté mantenersi che per qualche secolo, prima di decadere e sparire. «Orbi fecisti quod prius urbis erat», cantava in un inno a Roma un altro poeta celtico che si era dato il nome di Rutilio Numaziano, [alias]e che viveva sotto Onorio. Il poeta aveva ragione, ma si potrebbe aggiungere che Roma non l’aveva certo voluto. Tutto nella storia ha la sua misura. Nulla è eterno, né assoluto. Si tratta sempre di piegare la storia ad una volontà. di cercare di darle una forma. Nella breve giornata di storia che hanno vissuto, i Romani si sono affermati, rispetto e contro tutti, realizzando il solo progetto di imperium esistente. Essi l’hanno fatto tanto a lungo quanto a lungo ci sono stati. Giacché l’imperium non decade veramente se non quando non vi sono più Romani, se non quando «Roma non è più in Roma».
Non ci si accorse forse subito che gli ultimi discendenti delle gentes erano morti sui campi di battaglia. O forse ce ne si accorse. Ma lo si nascose con cura. Si fece finta di credere che coloro che, ormai, si davano il nome di Romani, lo fossero davvero. L’ultimo dei Romani, lui, sapeva probabilmente ciò che ne era stato. Egli non ignorava la pietosa finzione dell’indomani, e seppe riderne a suo modo, crudele, sovranamente pieno di disprezzo, e tuttavia di compassione. Forse, quando elevò il suo cavallo alla dignità di console o di senatore, voleva far sapere sottilmente che dal momento in cui non vi erano più Romani autentici, tutti potevano essere Romani…
Con la rivoluzione industriale, l’umanità è entrata oggi in un periodo di planetarizzazione. Nessun popolo può sottrarsi a questa prospettiva planetaria, o sognare di un impossibile isolamento. Un ordine planetario è obbligatorio. Esso è fatale, a più o meno breve scadenza. La Grande Politica di domani non potrà essere concepita e perseguita altro che avendo ciò che Ernst Jünger chiama il Weltstaat, l’ordine mondiale, come movente e come fine. I sintomi si manifestano già: Società delle Nazioni, poi Nazioni Unite, sul piano dell’utopia; impero sovietico, impero americano nei fatti.
Ma tutto porta a credere che gli Stati Uniti, come l’Unione Sovietica, non siano capaci di essere la Roma di domani. Questi «blocchi», che cercano di organizzare come possono i mezzi di potenza messi a loro disposizione dalla rivoluzione tecnologica, ricordano piuttosto l’Egitto dei faraoni e le teocrazie della Mezzaluna fertile. Resta nondimeno il fatto che la planetarizzazione che si opera esige un ordine cosmico. Quest’ordine sarà «imperiale» o al contrario «repubblicano» nel senso francese del termine, cioè egualitarista? Nessuno può dirlo, perché l’avvenire storico è libero. Possiamo soltanto impegnarci in un senso o nell’altro. La soluzione ugualitaria, che sbocca nella «Repubblica universale», implica la riduzione ad unum dell’umanità, l’avvento di un «tipo universale» e l’uniformizzazione globale.
La soluzione «imperiale», lo ripetiamo, è gerarchica. Se la libertà, nella dialettica ugualìtaria, non è che un assoluto che si oppone ad un altro assoluto (la negazione della libertà), nella dialettica «imperiale», essa non è che un relativo, direttamente legato alla nozione di responsabilità sociale. Nell’ímperium, l’assoluto è il diritto del migliore secondo la virtù dell’umanità dei suo tempo. Ma l’imperium è anche il solo mezzo di preservare le differenze dentro (e attraverso) una prospettiva planetaria, tramite un unicuique suum che riconosce implicitamente il fatto fondamentale dell’ineguaglianza dei valori e delle identità.
Da uno stretto punto di vista psicologico, l’avversione che manifestano molti autonomisti e regionalisti per l’idea «repubblicana» egualitaria, è perfettamente giustificata. Essi infatti si ingannerebbero gravemente immaginando che la sostituzione di un ordine «universalista» all’ordine esistente basterebbe a risolvere i loro problemi. Perché la «Repubblica» concepita dagli uomini del 1789 non è altro che la prefigurazione, a livello nazionale, di uno Stato mondiale egualitario, più riduttore e livellatore ancora di quanto i giacobini mai siano stati.
Da uomolibero.com