Pubblichiamo il primo capitolo del romanzo di Pierluca Pucci Poppi, “I giorni del martello”, edito da Irradiazioni. Il libro sarà presentato stasera a Roma, presso la libreria Aseq di Roma, con il giornalista e scrittore Gabriele Marconi.
“I giorni del martello” nasce dalla sua passione per la storia, la politica internazionale e le ucronìe, o “storie alternative”, che esplorano mondi in cui eventi epocali hanno avuto esiti differenti. Il romanzo si sviluppa lungo due linee narrative parallele e contemporanee: nella prima, il protagonista si sposta da un universo all’altro; nella seconda, nel “nostro” mondo, una tecnologia inspiegabile causa una crisi internazionale. Il libro descrive mondi in cui: Stalin ha invaso l’Europa occidentale negli anni Cinquanta; i tedeschi hanno vinto la seconda guerra mondiale nel 1941; Napoleone ha sbaragliato i russi nel 1812; la crisi dei missili di Cuba del 1962 ha provocato una guerra nucleare; i bolscevichi sono stati sconfitti dai generali zaristi negli anni Venti.
Roma, lunedì primo marzo.
“The hammer of the gods will drive our ships to new lands, to fight the horde, singing and crying: Valhalla, I am coming!” Clic. Spento, infine. Che funesto errore la sveglia con i Led Zeppelin. È che di notte, ubriaco alle quattro, regolo il timer dello stereo su brani che sentirei volentieri da ubriaco alle quattro. Ma di mattina non va bene, roba simile fa sanguinare il naso. Poteva andare peggio, potevo scegliere l’ultimo Tarzan Molotov. Sveglia. Già le dieci. Che devo fare oggi? Che giorno è? Lunedì. Ah, sì, intervista allo scienziato russo. Ministero degli Esteri, ore undici, primo marzo, convegno internazionale sulla ricerca scientifica. Non mi va. Bevuto troppo. Stretta e invisibile corona d’acciaio. Cuscino fresco. Sonno. Stipendio. Mi alzo. Domani, sveglia con Ludovico Einaudi.
Annodamento rapido di cravatta stropicciata, tassì, edicola dove comprare numerosi quotidiani che non avrò il tempo di leggere, palazzo della Farnesina. La cravatta mi fa sudare, il caldo è atroce per la stagione. Entro dall’ingresso stampa e vengo dirottato verso un convegno dall’accattivante titolo: “Parametri giuridici per la regolamentazione della ricerca scientifica: normativa italiana ed europea”. Mi permetto di far rilevare alla mia accompagnatrice – una bionda altissima in uniforme rossa con alamari dorati – che il convegno a cui debbo assistere è quello su “campi magnetici e misura del tempo”, un argomento piuttosto fringe, aggiungo per fare lo spiritoso e nella speranza che la gestapista venga incuriosita da cotanto intellettuale cosmopolita. Come sarebbe ovvio a chiunque non sia stato svegliato da Immigrant song, niente da fare.
“Dottò – dice annoiata la Brunhilde del Quarticciolo – er convegno suo è dall’antra parte der palazzo.
Comprendo – rispondo infelice – il problema. Ella potrebbe indicarmi la corretta direzione, giacché l’evento in questione dovrebbe iniziarsi fra non più di cinque minuti?
La risposta è indecifrabile, per cui, solitario, mi metto in cerca della sala che dovrebbe ospitare il mio convegno.
Dopo aver esplorato infiniti corridoi, che ricordano l’Overlook Hotel di Shining, mi ritrovo in una sala piuttosto modesta rispetto al magniloquente tema in esame. Colleghi giornalisti zero (buono o cattivo segno? Non si è mai capito), strane cravatte, niente da bere. Penso al caporedattore, che mi ha mandato in questa desolazione, e spero che nella sua prossima vita rinasca come toro madrileno. Mi siedo in una di quelle micidiali poltroncine di plastica che spaccano la schiena e seguo distrattamente gli interventi di scienziati americani, francesi, tedeschi, bielorussi, ucraini, kazaki e, soprattutto, russi (perché principalmente provenienti dall’ex Unione sovietica? Lo scoprirò fra poco, penso, grazie alla mia intervista, negoziata dal caporedattore direttamente con Mosca).
Degli argomenti non capisco granché. Si parla, ovviamente, di campi magnetici, ma mi sfugge il rapporto fra questi e il flusso temporale, che per i relatori sembra assodato al punto da ritenere di non dovere indulgere in spiegazioni per i bifolchi. Insomma, complice anche una traduzione approssimativa e un formidabile mal di testa, non riesco a cogliere il punto. Dilaniato dalla noia, ricordo quando collaboravo al servizio esteri di una rivista semiclandestina, per la quale scrissi, poco dopo il crollo dell’Urss, alcuni pezzi sulle presunte scoperte di scienziati ormai ex sovietici, che deliravano volentieri con la stampa occidentale. I miei articoli tentavano di essere divertenti ed erano composti da estratti della stampa internazionale su singolari confessioni di non meglio identificati accademici moscoviti. C’era di tutto: un folle sosteneva di aver fotografato l’anima, cioè l’aura che circonda il corpo umano e che, dopo alcune ore dalla morte, si separa dal cadavere; altri dichiaravano che l’aeronautica militare sovietica aveva un nutrito dossier su avvistamenti di Ufo, comprese foto ad alta risoluzione che non lasciavano spazio a dubbi sulle visite di extraterrestri al nostro pianeta; altri ancora giuravano che l’esplosione di Tunguska in Siberia nel 1908 – che illuminò i cieli europei fino a Londra – non era stata causata da un meteorite, bensì dall’impatto di un’astronave aliena sulla tundra. Un altro squilibrato pretendeva di aver mandato due scarafaggi indietro nel tempo di qualche millisecondo, grazie alla manipolazione dei loro campi magnetici. Quest’ultimo pezzo mi incuriosì assai, perché lo “scienziato” in questione sosteneva che pratiche simili erano troppo pericolose per l’umanità, per cui era meglio dimenticarle. Il giornalista che lo intervistò scrisse di essere riuscito a contattarlo dopo grandi difficoltà e di non essere più riuscito a parlargli dopo il primo e unico colloquio. Scoop? No di certo, visto che la faccenda fu relegata fra le brevi di esteri. Tentativo dello scienziato di rendersi famoso? Nemmeno, visto che fu difficile contattarlo, che parlò poco e con reticenza e che, dopo l’intervista, scomparve.
In realtà, qualunque orecchiante di esteri con un minimo di esperienza della guerra fredda sa che i sovietici, come in minor misura gli americani, investivano denaro e intelligenze in campi scientifici piuttosto eterodossi, come la parapsicologia, le onde elettromagnetiche per fini bellici, i terremoti indotti artificialmente, il controllo del clima, la trasmissione del pensiero a distanza e simili amenità. Queste scemenze sono ben documentate, ormai. In fondo, è abbastanza comprensibile, per i russi come per gli americani: e se avesse funzionato? Se questa roba avesse loro permesso di ottenere anche un minimo vantaggio sul campo di battaglia planetario, in un confronto all’ultimo sangue? Quando hai migliaia di testate atomiche puntate sulle tue città, puoi anche indulgere in pensieri del genere.
Ed eccomi a contatto diretto con i cascami di quella cultura parascientifica, nata dal terrore del Politburo, dell’armata rossa e del Kgb nei confronti della tecnologia occidentale. C’è materiale per scrivere almeno un pezzo di colore? Boh. Eppure, questi signori sono invitati ufficialmente dai nostri ministeri degli Esteri e della Ricerca (il che, a rifletterci un po’, non significa assolutamente nulla). Vero è che le iniziative italo-russe ed euro-russe si sono moltiplicate negli ultimi anni: per dimostrare a Mosca che siamo sempre amici; che un giorno o l’altro (probabilmente l’altro) la Russia entrerà nell’Unione europea; che certo l’Ucraina non è affar nostro, per non parlare della Bielorussia, checché ne dicano gli insolenti tedeschi eccetera. Ah, se solo il vecchio Sheremetev fosse ancora vivo. Con lui sì che si poteva discutere.
@barbadilloit
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