Dopo cinque anni di successi questa volta è stato il Brancaccio ad inaugurare la stagione 2014 – 2015 con “Dignità autonome di prostituzione”, regia di Luciano Melchionna; spettacolo in scena fino all’otto ottobre.
Semivestiti e seducenti, un po’ svampiti e accattivanti, 30 artisti calcano la scena confondendosi con gli spettatori/clienti e contrattando con loro le prestazioni. Si tratta di pillole di piacere teatrale, si tratta di raccontarsi, di darsi completamente, di fare il mestiere dell’attore così come esso è nato. Il format di Luciano Melchionna e Betta Cianchini ha ottenuto dal 2007 ad oggi numerosi riconoscimenti in termini di pubblico e critica. L’idea è il trasformare il teatro in un postribolo in cui ogni angolo è idoneo ad appartarsi con il proprio o la propria scelta. E del postribolo c’è la melanconia dipinta dalle luci rosse e tenui del teatro, c’è il caos dei visitatori, c’è la contrattazione con moneta del posto, c’è l’attesa del piacere.
I monologhi recitati dagli artisti hanno un testo per lo più drammatico e sono stati scritti per la maggior parte da Melchionna stesso, alternati a testi classici noti e meno noti. Non vi è replica, lo spettacolo si rinnova continuamente e la chiusura del postribolo sorprende lo spettatore oramai avvezzo al piacere e avido nel volerne sentire ancora il gusto.
L’eclettismo degli artisti che si offrono è sbalorditivo: in pochi secondi una voce e una mimica a sfondo comico danno inizio al dramma, un dramma sociale attuale, come quello della ragazzina stuprata o della famiglia indigente o dell’ammaliatrice disperata, personaggio mirabilmente interpretato da Antonella Elia.
Ogni sorriso è la maschera di un profondo dolore e ogni animo al di là del pregiudizio cui è soggetto parla a più voci. Inevitabile la riflessione mentre ci si diverte e inevitabile e doveroso il rispetto che suscita l’artista che ti si esibisce dinanzi. La bellezza di Dignità autonome di prostituzione credo risieda proprio nella sorpresa, la sorpresa di rendersi conto dell’importanza del teatro per la mimesi della vita, come anche nel mettere in dubbio la propria capacità di giudizio, perché confrontandosi con l’altro ci si rende conto che quanto era visto come uno in realtà nascondeva 10.000 volti diversi.