Che fin da ragazzo mangiasse midollo di leone è noto: lo ricordavano i suoi compagni e professori dei licei Dante di Ravenna e Morgagni di Forlì dove, nel ‘24, conseguì il diploma di maturità classica.
Delio Cantimori (Russi, Forlì, 1904 – Firenze, 1966). oltretutto – per motivi familiari e logistici – era giunto più tardi degli altri suoi coetanei ad iscriversi alle classi del ginnasio superiore, aggiungendo, quindi, il peso di qualche anno di maggior maturità. Altrettanto noto che avesse un padre “ingombrante”, Carlo (Russi, 1878 – Russi, 1963): studente dell’università di Pisa dal 1898 (vi frequentò i corsi di storia moderna di Amedeo Crivellucci, lavorando ad una ricerca sull’assassinio “del liberale romagnolo Domenico Antonio Farini, ucciso dai sanfedisti l’ultimo di dicembre del 1834”), poi di Bologna, laureatosi infine a Padova.
A Bologna era già stato schedato dalla polizia: di tendenze anarchiche, socialista, repubblicano; riscuoteva credito nelle varie commemorazioni che teneva (Mazzini e la Repubblica romana, Giordano Bruno, Farini…, più le perorazioni, nel 1906, “al comizio pro rivoluzione russa”). Altrettanto ne acquisiva nei congressi nazionali del partito socialista e più ancora di quello repubblicano, di cui sarebbe stato uno dei giovani intellettuali. Professore di lettere in vari licei ed istituti magistrali dell’Italia centro-settentrionale, schedato come “pericoloso” nel 1911 (proprio quando prendeva contatto con Giovanni Gentile, proponendosi come studioso delle tradizioni mazziniane idealistiche). La grande guerra lo portò su posizioni interventiste, poi – naturalmente – fasciste: iscritto al partito nell’aprile ‘26; pochi mesi dopo veniva radiato dallo schedario dei “sovversivi”.
Anarchico, socialista, repubblicano, interventista, fascista…, scrittore di saggi storico-politici e di romanzi (intellettualmente attivo ancora nei primissimi anni ‘60), ammaliato dal mito repubblicano mazziniano fino alle circostanze estreme, congiunte certo con la casualità dell’esistenza: nell’autunno del ‘43 era a Parma, preside del Liceo Maria Luigia; da sempre mazziniano, aveva visto finalmente sorgere una repubblica in Italia; la prima, non più locale, ma nazionale, che per giunta volgeva le proprie attenzioni a sinistra, al recupero di quel patrimonio di idealità e progetti negletto dopo la marcia su Roma. E nel febbraio ‘44 aveva celebrato Mazzini e l’anniversario della Repubblica romana davanti alle autorità fasciste e tedesche. Nel giugno ‘45 venne “epurato”.
Un percorso politico inquieto, passionale, antiliberale e anticapitalista, repubblicano e fascista. Un itinerario ripercorso in parte, non dissimilmente, da Delio che amava ricordare la specificità totalizzante, antropologica, della vita politica in Romagna in cui aveva mosso i suoi primi passi e maturato le sue prime esperienze. Esperienze vividamente e simbolicamente rappresentate dall’incontro notturno a Forlì, cui fu portato a partecipare dal padre: la celebrazione del 4 novembre ‘22, primo anniversario della vittoria dopo la marcia su Roma (una celebrazione tenuta dall’avvocato repubblicano e massone Innocenzo Cappa, inviato da Roma, durante la cui attesa avvennero incidenti tra fascisti già repubblicani e socialisti, e monarchici e nazionalisti) e, a seguire, una riunione ristretta del gruppo repubblicano (tra cui Carlo Cantimori e dunque il diciottenne Delio) con l’avvocato Cappa per discutere dell’“accettazione”, cioè dell’adesione esplicita al fascismo. Delio di quella notturna riunione forlivese dette nel 1965, nella Premessa al Mussolini il rivoluzionario di Renzo De Felice, una testimonianza pubblicabile.
Ma a De Felice, che ne aveva toccato il nervo scoperto del rapporto col padre, Delio scrisse una lunga lettera privata su quella stessa riunione ricordando più ampiamente (e in modo allora editorialmente inaccettabile), dinanzi alle domande e alle perplessità degli anziani repubblicani di Romagna, le testimonianze del Cappa sull’“entusiasmo dei giovani per il fascismo”. Alla Normale di Pisa, dal ‘24 (ancor prima che Giovanni Gentile, regio commissario dal ‘28, direttore dal ‘32, la elevasse ai livelli internazionali), Delio era già fascista. Fascista di sinistra, naturalmente, come è politically correct e obbligato dire a beneficio di personalità della cultura, convintamente fasciste, cui si fa credito non di attenuanti, ma del tempo necessario per l’immersione nel lavacro salvifico e rigeneratore della conversione ideologica.
Un fascista pronto a difendere anche con le armi la rivoluzione italiana, come testimoniava nel corso delle lunghe discussioni interne col piccolo gruppo antifascista di Aldo Capitini, discussioni protratte ben oltre la conclusione degli studi e del perfezionamento; quando Cantimori s’era ormai avviato all’insegnamento in vari licei, e già era in contatto coi gruppi giovanili tedeschi antiweimariani. Era tra i pochi a parlarne correntemente la lingua, e mentre avviava gli studi umanistici e rinascimentali (che ne rimandavano la filiazione a Giovanni Gentile e a Giuseppe Saitta), aveva e avrebbe viaggiato più volte per la Germania e per la Svizzera tedesca. L’opposizione passionale e violenta di quei giovani alla costituzione di Weimar e alla spregiativa “Versaglia” che ne rappresentava la paternità altrettanto violenta da parte dell’ordine internazionale, stregava Cantimori che ne coglieva agevolmente la il ritratto radice antiliberale, antiparlamentare, anticapitalista e antindividualista. I diritti individuali prodotti dalla rivoluzione francese avevano conculcato la concezione “organicista” della società; quei giovani tedeschi combattevano con le armi e si combattevano,manifestando rispetto per il nemico spartachista che si trovava sulla barricata opposta, e – insieme a questo – disprezzo per i traditori borghesi, socialdemocratici, liberali, massoni, ebrei… Unico e comune, del resto, era il nemico: l’ordine internazionale e il liberalismo.
Cantimori visse intensamente (poi nascondendola) quell’esperienza, quell’illusione nazionalbolscevica. Una rivoluzione conservatrice capace di far convergere nazionalismo e socialismo, di non considerare nemico ideologico (meno che mai politico-militare) il bolscevismo, ma avversario nella conquista della gioventù rivoluzionaria europea. Da cui l’attenzione di Cantimori ai maggiori esponenti di quella cultura: Gregor e Otto Strasser, Ernst Niekitsch, soprattutto Ernst Juenger (nomi che, grazie alle cronache tedesche di Cantimori, appaiono – ancorché senza provocare entusiasmo né seguito – nelle pagine di riviste culturali italiane, da “Vita nova” a “Leonardo”). La liquidazione sanguinosa di questo movimento nella “notte dei lunghi coltelli” (30 giugno – 1° luglio ‘34) lasciò Cantimori freddamente disilluso: ne denunciò il segno reazionario della Germania degli Junker, degli industriali e dei militari; rimanendo intossicato da quell’inebriante veleno, pericolosissimo per l’Europa e l’intera cultura politica occidentale.
Mentre lavorava al capolavoro tecnico della sua esperienza intellettuale, gli Eretici italiani del Cinquecento (edito dalla gentiliana Sansoni nel ‘39, coi non rituali ringraziamenti a Gentile e a Volpe, che ne rinviano la genesi ad una linea di tradizione “nazionale”), e dopo aver già preso le distanze da Croce, Delio volle proporsi a Volpe come autore di quello che avrebbe dovuto essere un piccolo libro divulgativo sul partito nazionalsocialista per una piccola collana editoriale dell’Ispi (Istituto di studi per gli studi di politica internazionale, Milano). Lo volle lui (Volpe aveva affidato il lavoro a Carlo Antoni, di notorie tradizioni liberali), e fu il libro del suo tormento; iniziato prima della guerra, condotto ancora nel 1941-42, interrotto con plateali pretesti solo nel ‘44. A quel libretto, originariamente antologico, Cantimori aveva cambiato struttura e titolo: non partito, ma “Movimento nazionalsocialista”, con un arco cronologico limitato alle origini rivoluzionarie, non all’affermazione e all’azione di governo: dal 1919 al 1933. Un ritorno ad antiche esperienze e illusioni, ormai storicizzabili, e riconducibili ad una radice ideologica recisa di cui Delio avvertiva ancora le vibrazioni.
Sposato dal febbraio ‘36 con Emma Mezzomonti, militante comunista in contatto segreto col centro estero del Pcd’I (non senza consapevolezza del marito fascista), Delio dalla fine degli anni ‘30 o forse poco dopo, aveva avviato la sua marcia di riorientamento politico-ideologico. Svanite le speranze rivoluzionarie nel fascismo e nel nazionalsocialismo, distrutto militarmente il nazionalbolscevismo, l’ansia antica, di matrice mazziniana (e di antropologia romagnola) della rivoluzione nazionale lo portava all’abbraccio del comunismo. Ancora nell’ottobre ‘40 però, a guerra appena iniziata, scriveva a Bainton vantando una disciplina nazionale e un impegno civile “finché non si è chiamati ad altro [alle armi]”; del resto proveniva da una famiglia in cui non solo il padre era stato “interventista”, ma il fratello minore di Delio, lo straordinario Felice – Cino, pittore che nelle proprie tele esprimeva la stessa tempra e personalità espresse da Delio nei suoi libri, era andato in Africa orientale nel ‘37, aveva combattuto contro gli inglesi da cui era stato fatto prigioniero nel ’41, e da cui, “irriducibile”, sarebbe stato liberato solo nell’aprile ’46. La crisi italiana dell’estate ‘43, aveva visto Delio umanamente accasciarsi: affezionato e grato a Gentile,ma pavidamente renitente a riprendere l’insegnamento alla Normale nell’autunno seguente. Chiuso nell’appartamento romano del Gianicolo in attesa della conclusione della guerra. A studiare – senza ottenere i risultati che aveva ottenuto nelle ricerche cinquecentesche – il giacobinismo italiano. Nuovo tema non più suggerito dalla tradizione e dagli studi tradizionali umanistico-rinascimentali, ma imposto dalla necessità del ripensamento delle radici nazionali, dell’unità statale; un tema imposto anche politicamente, anzi partiticamente dalla “svolta” determinata con la pubblicazione nell’immediato dopoguerra dei Quaderni di Gramsci (pubblicazione censurata nell’edizione curata da Felice Platone per il partito comunista).
Alla giovane generazione di storici che ora s’affacciava al proscenio intellettuale (alcuni dei quali, come Armando Saitta, già allievo della Normale e di Cantimori) Gramsci offriva il modello di abrasione del mito borghese- nazionale, epico, del Risorgimento e dell’unità nazionale, e dunque la necessità di ante datarne le origini ad un momento pre-sabaudista, pre-cavourriano e non liberale: il giacobinismo buonarrotiano, repubblicano e socialista. Cantimori, circondato dal rispetto accademico e politicamente riciclato dall’iscrizione al partito comunista nel ’48, comunque arrancava; seguiva e benediceva le giovani leve che s’affacciavano sulle pagine di “Belfagor” e di “Società”: Saitta appunto, e l’ancor più giovane Renzo De Felice. Ma la stagione delle energie e degli entusiasmi era passata. Cantimori seguiva gli studi giacobinistici, ne pubblicava testi antologici, ma il cuore era altrove.
All’invasione sovietica dell’Ungheria, dopo essersi consultato con Saitta, oppose un non rinnovo della tessera del partito comunista per l’anno seguente. Confinava nella propria agenda testimonianze e sfoghi sui propri “grandi errori”: credere nella rivoluzione fascista, iscriversi al partito comunista… Un itinerario ormai concluso nella disillusione. Lui e con lui una generazione di giovani intellettuali che aveva scavalcato Croce e il liberalismo, entrambi esauriti e improponibili alla fine della guerra, non ritrovava una strada (emblematici di una gamma di possibili variazioni interne ad uno stesso percorso i casi di Ugo Spirito e Luigi Russo o, fuori dall’accademia, di Romano Bilenchi, Curzio Malaparte ecc.): disillusi dal tentativo di riannodare quei lacerti entusiasmanti d’una “Rivoluzione” (morale- nazionale, poi politico- ideologica) sempre mancata o fallita in Italia, non s’arrendevano comunque al dilagare della corruzione morale-intellettuale democristiana, al parlamentarismo borghese, al capitalismo rampante.E non avevano ancora sperimentato il seguito.
*L’articolo di Paolo Simoncelli è stato pubblicato sul primo numero della rivista di dibattito politico economico culturale “Leonora”. Per abbonarsi alla pubblicazione: 30 euro da versare sul c/c postale 1000958312 , intestato a Edizioni Giuseppe Laterza – Bari (causale: abbonamento a “Leonora”).