Una risata li seppellirà. E allora lunga vita alla satira. Soprattutto se le sciabolate fendono se stessi e il proprio mondo, prima che gli altri. E se a destra qualche coraggiosa novità prova a farsi largo nell’ultimo periodo – il ritorno di Candido è notizia che conforta – una delle poche certezze in materia, a queste latitudini, resta la tagliente genialità di Alfio Krancic. Per una volta, però, il vignettista d’origine fiumana ha abbandonato la matita per prendere in mano la penna. Cambia lo strumento, non il risultato. Il risultato è un libro snello, estivo nel senso migliore del termine: “La grande invasione”.
Cinque racconti in cui Krancic si diverte a prendere sonoramente per i fondelli i protagonisti del mondo politico italiano, i tic del pensiero unico, le follie di una teoria dei diritti dell’uomo che scopre, a ogni mossa, la propria evidente contraddittorietà. Mettendo alla berlina i meccanismi che regolano più in generale l’attuale società, il vignettista de Il Giornale denuncia il conformismo del politicamente corretto, l’inciucismo di un’intera classe dirigente e il senso di colpa creato ad arte per soffocare ogni istinto, persino quello di sopravvivenza. Basta sfogliare “Racconto gitano”, storia di un pensionato a cui il fisco sta per pignorare casa e che decide di fingersi rom per avere solo diritti e nessun dovere.
Sul tema dell’immigrazione Krancic non fa sconti. E non risparmia mazzate sui denti a chi segue acriticamente il verbo di un pietismo che non rispetta innanzitutto la legittima aspirazione alla libertà e all’indipendenza delle culture, mortificando – in nome di un rispetto del “diverso” che sfocia necessariamente nell’omologazione imperante – la ricchezza delle differenze, unica strada per un reale rispetto dell’altro da sé. Nel racconto d’apertura, che dà il titolo alla raccolta, il vignettista immagina persino un Hitler incredulo dinanzi al piano progettato da un suo generale: far invadere l’Inghilterra, sul finire della Seconda guerra mondiale, da profughi, senza soldi e speranze, per creare una così forte tensione sociale con gli allogeni da far crollare il regno di sua maestà sotto le proprie contraddizioni. La battuta di un Führer disperato e consapevole del fallimento dell’operazione – gli inglesi hanno infatti reagito bombardando i barconi -, è un pugno allo stomaco, e forse sotto la cintola, al politicamente corretto e ai tanti buonismi a senso unico, con buona pace di Boldrini & Co.: “Quale nazione accoglierebbe ora o in futuro centinaia di migliaia, milioni di migranti senza reagire. Una porcheria che non funzionerà mai!”, dice sconsolato ma raziocinante al suo generale, tanto considera assurdo un progetto, e un modello, del genere.
Il racconto centrale, “La compagnia dell’imperatore” è forse il più politico in senso stretto, dei cinque racconti. Quello dove il vignettista fa i conti con esponenti, trame e mancanza di sugo dei (presunti) rappresentanti politici di centrodestra, in quella zona grigia dove delle idee è rimasto solo l’alone. Ma c’è spazio anche per il tema “storico”, con la narrazione, in chiave antirisorgimentale, delle vicende che hanno portato all’Unità d’Italia e in cui Krancic si immagina il fallimento delle truppe garibaldine e persino una fine ingloriosa per l’eroe dei due mondi. Esilarante è il quadretto di “La freccia nera”, in cui una banda di cospiratori, un po’ pirati un po’ nerd, si batte contro il pensiero unico per abbattere il Grande fratello.
La narrazione del vignettista fiumano tocca punti di preveggenza nell’ultimo dei cinque racconti che compongono la raccolta. In “25 luglio” si immagina un presidente Napolitano che esautora, senza bisogno di passare per alcuna seduta del Gran consiglio, Berlusconi, di fatto con un colpo di Stato strisciante. Considerato che è stato scritto nell’estate del 2010 – più di un anno prima di quello che Berlusconi e i suoi chiamano “golpe”, gli altri un modo per “rassicurare i mercati” e delle polemiche scaturite dalle rivelazioni del giornalista Alan Friedman – viene il dubbio se Krancic sia dotato di strani poteri divinatori. O forse, più semplicemente, accantonata per un attimo la matita e sfoderata la penna, è rimasto semplicemente ciò che già era: un fustigatore del pensiero unico, capace di punzecchiare il sistema con fulminanti vignette così come con racconti umoristici che non solo sfottono la realtà ma la interpretano sotto le lenti stranianti della satira.
Un divertissement che sfotte i buonisti, quindi. Ma “La grande invasione” è anche la prova di un’esigenza avvertita da un mondo intero di persone che non vogliono accontentarsi delle due facce della stessa satira imperante – il buonismo sempre timoroso di disturbare i potenti e la cattiveria di chi ironizza a senso unico – che viene esaltata a ogni piè sospinto. C’è un dannato bisogno di sorridere, facendo il solletico alle mille contraddizioni che il corpaccione del pensiero unico presenta tra le pieghe della modernità. Riso amaro, magari, ma pur sempre spavaldo e strafottente. Perché saper (anche) sorridere dinanzi al ghigno dei nemici, come davanti all’autocommiserazione degli amici, è questione innanzitutto di stile.