Siamo al quarantennale della morte di Julius Evola. Di fronte alle misure restrittive di certa critica, che hanno dileggiato ed osteggiato per tutto questo tempo la diffusione del suo pensiero, correrebbe l’obbligo di non rifugiarci più in posizioni difensive. Ed infatti sono in via di pubblicazione ottimi studi; altri sono usciti da poco (segnalo quelli curati da Gianfranco De Turris, con Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa) e di sicuro non mancheranno una mole di articoli all’altezza del personaggio e con un profilo ermeneutico meno manicheo di quanto non avuto finora.
Il senso prevalente di onnipotenza da parte di certa critica, ha fatto sì che, in passato, solo su quelli più ‘digeribili’ dalla opinione pubblica ‘democratica’ si potesse indugiare con una certa benevolenza. Per lungo tempo, l’ascesa verso una vetta così impervia – come quella di Evola – nascondeva infatti un incremento di paura anche per chi ne condivideva gran parte del suo pensiero nel momento in cui si entrava in collisione con le luci e le ombre.
Non c’è dunque momento più profondo per indagare se non tenere conto di tutto di tutto questo. Tuttavia non me la sento di rievocare in maniera classica. Provocatoriamente parto dalla nostalgia e dalla visione parzialmente distorta di un quindicenne che in gran parte conteneva in sé tanti degli stereotipi su cui la critica si è accanita.
So che le considerazioni/confessioni che seguiranno porteranno – come correlato – agli occhi dei benpensanti le critiche di sempre. Io, invece, più che entrare nelle sinuosità della sua complessa opera, voglio intenzionalmente restare in superficie. In realtà, quel quindicenne oramai adulto, può permettersi di rimestare in quei ricordi perché ha percorso e attraversato vie impervie. A differenza della critica militante, immobile nelle sue certezze, ha compiuto un percorso fatto di curve, ostacoli, rallentamenti vari.
Voglio raccontarvi di me quindicenne a cui furono dati in prestito da un ‘camerata’ di dieci anni più grande, due libri: La disintegrazione del sistema di Franco Freda e Il Cammino del Cinabro. Il primo, non avendo soldi per fotocopiarlo, lo riportai integralmente a macchina. Intere giornate con quelticchettìo nelle orecchie, rombi di cannone pronti a demolire ogni cosa. I foglicon cancellature e indicazioni li conservo gelosamente in un cassetto. Erano le tattiche e le strategie di un rivoluzionario che sognava la presa del potere. Come potevano non affascinarmi.
Il cammino del Cinabro (copertina gialla, edizioni Vanni Scheiwiller) non lo ricopiai perché avevo già deciso di comprarlo. Andai a Napoli, insieme ad un mio amico di liceo (ovviamente marinando la scuola), in una libreria talmente piccola che a malapena ci si poteva muovere. Per qualche tempo fu il nostroEldorado. Ritornammo molte altre volte e ovviamente sempre di mattina. Conquell’amico ci iscrivemmo al MSI, probabilmente falsificando qualche dato anagrafico. L’anno dopo infatti traslocammo al Fronte, per poi ritornare al partito ‘da grandi’. Lui aveva perso entrambi i genitori. Il padre da piccolo e la madre da pochi mesi. Fu affidato ai suoi zii ma la casa paterna era libera e cosìpassammo interi pomeriggi (oltre che le mattinate) a declamare ad alta voce e a turno i ‘passi’ più intriganti.
Nel frattempo si erano aggiunti nella mia striminzita biblioteca Cavalcare la tigree La dottrina del risveglio. Ho letto di personaggi dello spettacolo e della cultura raccontare dei libri dell’infanzia. Hemingway, Leopardi, Goethe, addirittura c’è chi si arrischia – non essendo in alcun modo credibile – con Marcel Proust. Iodalle favole passai direttamente a Evola. In quella reggia disabitata fumavanosigari e bevevamo whiskey. Da un lato del tavolo il Secolo d’Italia, dall’altro quei libri gialli.
Ora, quei due ragazzi sempliciotti che si atteggiavano a rappresentare un modello letterario (il dandy), politico (il ribelle) e antropologico-filosofico (il nichilista), oltre a suscitare una comprensibile ilarità, mi fanno anche un po’ di tenerezza.
Solo tempo dopo ho capito che Il cammino del cinabro era il testo meno indicato per intraprendere un percorso su Evola, senza aver letto nulla di lui. Il libro faceva riferimenti espliciti a tutta la sua opera, a polemiche passate e contemporanee, e ad altre diatribe dialettiche sulle quali eravamo ovviamente impreparati.
Qualche anno dopo ho riletto Evola in maniera seria. Ed ovviamente era un altro Evola. Ma ora che tutti tenteranno di renderlo commestibile all’opinione pubblica, lo voglio ricordare nella maniera più inconsueta ed epidermicapossibile. Passate le commemorazioni e i ricordi, continuerò forse a tracciare il solco e a sezionare in profondità la sua opera come quella di molti altri. Oraperò voglio ricordarmi di quei libri dalle copertine gialle, di quei sigari, di quel mio amico e di quella rivolta contro il mondo moderno che non ci ha ancora del tutto imprigionati.