In un bel libro dedicato alle interpretazioni dei dialoghi politici platonici, Mario Vegetti denunciava con forza l’eccesso ermeneutico che si era andando accumulando nel tempo sull’opera filosofico-politica di Platone. Mentre ribadiva la necessità di porre un freno al proliferare dei commenti e delle decodificazioni, Vegetti non mancava di segnalare come questa pluralità di letture fosse comunque il destino e la ricchezza di ogni classico. Perché è propria dei classici la capacità di suscitare di continuo nuovi approcci e valutazioni.
Vegetti ricordava pure che un autore classico, in quanto tale, possiede sempre un potentissimo fattore legittimante, e pertanto non ci si dovrebbe stupire dei tentativi (da parte dei critici) di ricondurlo al loro orizzonte culturale. Per la precisione, Vegetti alludeva a “strategie di assimilazione, intese a fare del Platone politico una auctoritas da investire nella conferma delle diverse opzioni teoriche ed etiche, talvolta anche da spendere direttamente nel discorso dottrinale e propagandistico”.
Ovviamente il proliferare incontrollato delle interpretazioni, le più varie ed improbabili (specie se asservite a scopi ideologici), non può essere accettato in maniera passiva, mentre d’altro canto, quando ci si trova di fronte a un grande autore, non ha senso nemmeno la pretesa, nei suoi confronti, di vantare, in qualsiasi forma lo s’intenda, un monopolio ermeneutico.
Lo stesso discorso, in linea generale, può valere anche per uno scrittore tra i più importanti del ‘900 quale Tolkien, e per un romanzo riconosciuto come un testo fondamentale della letteratura di tutti i tempi: Il Signore degli Anelli.Eppure Wu Ming 4, l’autore di Difendere la Terra di Mezzo. Scritti su J.R.R. Tolkien (Odoya, Bologna 2013), non sembra esserne granché consapevole e, sin dalla “Premessa” del suo testo, inizia ad attaccare alcune delle interpretazioni italiane di Tolkien a lui non gradite col risibile (e in fondo provinciale) argomento che queste persisterebbero “solo in Italia” (p. 11). Come se la validità di un’interpretazione si basasse principalmente su una sorta di universalistico consensus omnium, un concetto messo in crisi già nel XVI secolo da Montaigne nei suoi Saggi.
Poiché queste note sono rivolte esclusivamente all’analisi che Wu Ming 4 ha riservato proprio a tali letture, dopo questo lungo ma necessario preambolo, è il caso di entrare finalmente in merito. In sintesi, la strategia retorica messa in campo da Wu Ming 4 è semplice: passare sistematicamente sotto silenzio gli aspetti condivisibili delle letture tolkieniane oggetto di attacco polemico per evidenziarne solo i lati secondo lui criticabili. In tal modo, invece di riconoscere l’eventualità di nuovi e originali punti di vista sull’opera di Tolkien, si preferisce rigettarli in toto, derubricandoli a mere letture ideologicamente orientate e quindi del tutto errate. E questo, dunque, prescindendo anche da una più approfondita verifica circa i loro contenuti, quelli più interessanti e fecondi come quelli per lui meno ammissibili. Tutto ciò – lo si è già detto prima – allo scopo di rivendicare il proprio diritto esclusivo su Tolkien.
Alcuni esempi: il fatto che il successo del Signore degli Anelli fosse tutt’altro che scontato (p. 38) è stato affermato anche da Stefano Giuliano; le questioni sollevate a p. 44 sulle ragioni del successo popolare del Signore degli Anelli erano già state prese in considerazione da Gianfranco de Turris; l’argomento cruciale della diffusione dell’opera di Tolkien dopo la sua morte (secondo capitolo del testo di Wu Ming 4) era stato affrontato in precedenza sempre da de Turris. Ancora, a p. 61 Wu Ming 4 segnala l’importanza del testo di Shippey, cosa messa in evidenza da Giuliano sin dalla prima edizione del suo volume su Tolkien (datato 2001); il rimando al “controllo panottico” di Sauron (p. 174) è già estesamente sottolineato sempre in Giuliano, così come il ruolo degli Hobbit come servitori di “nobili signori” (p. 178), ossia re Théoden e il sovrintendente Denethor. E così via. Il punto, però, è che sarebbe fatica sprecata cercare tali riferimenti nelle note del libro di Wu Ming 4 per la semplice ragione che non ci sono. Così, ed è l’ovvia conclusione, il lettore non può che rimanere all’oscuro sia dell’ampiezza dei contributi critici provenienti dagli studiosi sopra ricordati sia della loro effettiva attendibilità.
Costoro, invece, sono citati esclusivamente nel quarto capitolo del libro di Wu Ming 4 (quello appunto dedicato per lo più ai commenti italiani su Tolkien) per lui da respingere e screditare. Qui si fa chiara la pretesa al monopolio sullo scrittore inglese e si procede ad destruendum, rimarcando solo i “demeriti” (per Wu Ming 4, s’intende) dei vari de Turris, Giuliano, ecc.
Ad esempio, viene collegata, in maniera arbitraria, la lettura del Signore degli Anelli come “metafora di un cammino iniziatico” (p. 104) con la presunta mira“di fare di Tolkien una sorta di cultore del ‘simbolismo tradizionale’, ovvero della forza metastorica della Tradizione” (ibid.). Ora, con tutto il rispetto per il Tradizionalismo che costituisce comunque un sistema concettuale dotato di una sua valenza (e che, naturalmente, si può condividere o meno), si trascura di proposito che Giuliano non fa alcun riferimento neanche in bibliografia ad autori tradizionalisti laddove lo slittamento nella letteratura di elementi collegati ai riti iniziatici è stato posto in risalto da Mircea Eliade (La nascita mistica, Morcelliana 1974). Si trascura altresì che tali elementi si ritrovano non solo nei romanzi epici medievali ma anche in opere moderne come i romanzi di formazione sul genere del Wilhelm Meister di Goethe, Il Rosso e il Nero di Stendhal, L’educazione sentimentale di Flaubert, ecc. Per di più, Wu Ming 4 evidentemente dimentica che critici importanti come Curtius e Frye si sono anch’essi avvalsi dei miti e dei simboli per leggere un’opera d’arte.
Stesso discorso la pagina dopo, quando Wu Ming 4 arriva a sostenere che Giuliano vorrebbe spacciare Tolkien “per un allievo – a sua insaputa – di Georges Dumézil” (p. 105). Ora, basta dare anche soltanto uno sguardo superficiale al libro di Giuliano per capire che la verità è decisamente differente:quella di Giuliano è infatti una ipotesi di lavoro avanzata con molte cautele. Non a caso, egli scrive: “Non vi sono riscontri in grado di confermare che, all’epoca in cui ideò e scrisse il Signore degli Anelli, Tolkien conoscesse gli scritti di Dumézil, né tantomeno che ne avesse specificamente tenuto conto nei suoi romanzi. Tuttavia, non si può nemmeno escludere aprioristicamente che egli fosse a conoscenza dell’opera duméziliana, considerata la comunanza d’interessi per la filologia” e così via. Pertanto, aggiunge Giuliano, “l’interpretazione qui proposta si pone dunque come un tentativo d’analisi […], l’eventuale convalida definitiva del quale andrà necessariamente rimandata ad ulteriori e più approfonditi studi e riflessioni”. Come si può agevolmente constatare, quella di Wu Ming 4 è dunque una voluta forzatura polemica, finalizzata a trasformareuna idea presentata con grande circospezione in un plateale sforzo di trasformare Tolkien in un seguace dell’indoeuropeista transalpino.
Per il resto, e per chiudere, tra l’immancabile rimando a Furio Jesi, qualche attacco alle letture “confessionali” (ossia cattoliche, vale a dire: Pearce, Caldecott, Spirito, Monda) di Tolkien e l’incapacità pressoché totale di comprendere appieno il retroterra culturale di un’opera complessa e sfaccettata come quella tolkieniana, si consuma, non troppo gloriosamente, l’ennesimo tentativo (travestito da “difesa”, anzi spacciato per tale ad un pubblico di ingenui e ignoranti) di egemonizzare un autore, in realtà, come tutti i classici,semplicemente non egemonizzabile.