Continua la vendita dei “gioielli di Stato” da parte del governo. Il Consiglio dei ministri ha deliberato la scelta di cedere quote cospicue (tra il 40% e il 49%) di due tra le realtà più in forma del patrimonio pubblico italiano: Poste italiane ed Enav (la società che gestisce i servizi negli aeroporti). L’operazione Poste dovrebbe portare, secondo quanto ventilato dal governo, un guadagno di 4 miliardi mentre meno significativa la quota che si aspetta dall’Enav.
Si tratta di un affare?
La domanda sorge spontanea nel momento in cui le stime del gruppo postale (che si occupa sempre più spesso di assicurazioni e fa da sportello bancario e che può sfruttare una rete capillare frutto di 150 anni di attività) parlano di 26 miliardi di ricavi annui mentre l’Enav ha chiuso il 2013 con il miglior bilancio della sua storia. L’indotto di queste cessioni per lo Stato – come di altre misure analoghe iniziate dal governo Letta – non sembra risolvere granché in termini di ripianamento del debito. Oltretutto rispetto a due realtà sane che – come dimostrano le cifre – contribuiscono strutturalmente ai conti dello Stato.
Un’operazione, quindi, che si innesta in una campagna di cessione di titoli delle aziende e degli asset strategici di Stato difficile da comprendere non solo dal punto di vista politico (Renzi aveva smentito di voler procedere sulla falsariga dei governi precedenti) ma anche da quello dei conti. Che anche in questo caso sembrano non tornare. Per lo meno a vantaggio degli italiani.