“Città d’utopia. Iniziative, analisi, dibattiti, sogni fra le città del sud” era un periodico uscito dal 1992 al 2002, dal ’95 edito da Rubbettino. Con parole del suo direttore, Antonio Pioletti, si prefiggeva un triplice scopo: era strumento d’analisi del blocco sociale che governava i processi politici, dava voce alle associazioni costituite sul territorio nei quartieri difficili, infine rendeva pubblici atti e documenti quasi del tutto ignorati dalle redazioni dei giornali. Naturalmente si occupava di mafia. Tra i collaboratori Giambattista Scidà (1930-2011), «militante della democrazia» così lo appellava chi gli stava vicino, intellettuale prestato alla magistratura e a lungo presidente del tribunale dei minori di Catania. Osservatorio privilegiato di fatti e misfatti. La sua missione per lungo lunghissimo tempo fu quella di critico e teorico di una società più giusta. Le parole d’ordine erano grossomodo tre: impegno, giustizia e cultura. Da qualche mese, ancora per i tipi della Rubbettino, è uscito un volume che raccoglie gli interventi di Scidà per “Città d’utopia”, ospitati in un’apposita rubrica che è anche il titolo del volume. “Eresie”.
A Scidà stavano a cuore i giovani, per mestiere e vocazione. Si soffermava con continuità sulle condizioni dei minori svantaggiati e sulle cause del delinquere. Minori esclusi dai benefici della cittadinanza sociale e neppure sfiorati dall’elementare diritto all’educazione. Le responsabilità, gravissime a dir poco, erano e sono di chi esercita il potere. Scidà era intellettuale scomodo tanto da divenire un “caso” da anteporre a quello ben più preoccupante che opprimeva una città – Catania, la nona d’Italia – affamata di verità e giustizia. Accusato di autoritarismo di scarso o eccessivo zelo (a seconda dei casi) e di produrre analisi o esternazioni fuori luogo. Scusate se è poco. Ma le sue denunzie non sono morte: il “caso Catania” non smette di tormentare osservatori, amministratori e cittadini. Scidà lo definiva in modo semplice: manomissione delle risorse pubbliche, ambigua realizzazione di fortune e condotte a dir poco equivoche in seno alla magistratura. Ne forniva esempi. Come per il caso del viale Africa. Il più grosso affare di corruzione a Catania, diceva. Nel quale fu coinvolto uno tra quelli che Giuseppe Fava appellò come i quattro cavalieri dell’apocalisse. Catania ignorava volutamente alcuni gravi fenomeni di criminalità: in cima lo spaccio di droga. Lo ha fatto ieri, lo farà domani.
Ai tentativi di allontanarlo dai posti di responsabilità il magistrato replicava con le armi dell’impegno e della parola: «è come spezzare il termometro per non constatare la febbre», diceva. Poi rincarava la dose con un appello «per i minori di Catania»: lucidissimo, sottratto alle astrazioni e alle ricette ideologiche. Che fare? Primo: analizzare cause e rimedi del fenomeno della dispersione scolastica con un occhio rivolto all’ambiente e l’altro alle responsabilità delle amministrazioni che devono aiutare genitori e figli in età scolare. «Nella massa esclusa, di fatto, dalla istruzione, è un potenziale di intelligenza, al quale Catania non può rinunciare, senza ledersi ed impoverirsi; e in quella massa è parte cospicua dell’elettorato di domani». I giovani vanno educati allo svago. Le imprese guardano al profitto ma le amministrazioni devono prendere posizione contro l’apertura delle sale-gioco. Le stesse amministrazioni e le stesse forze dell’ordine devono sottrarre i minori nomadi alle influenze ambientali; i bambini non devono arrivare «alle scuole elementari in condizioni di insoddisfacente sviluppo (cognitivo, del linguaggio, delle capacità di relazione)».
Il 24 gennaio 2014 il libro recipiente di verità è stato presentato presso l’ex monastero dei Benedettini di Catania. Evento organizzato dalle associazioni “Libera” e “Città d’utopia”: tra gli intervenuti Giuseppe Strazzulla coordinatore di “Libera”, Pioletti, Riccardo Orioles e Giovanni Caruso ex ragazzi di Fava intellettuale e giornalista caduto trent’anni fa per mano mafiosa, Maria Randazzo direttrice dell’istituto penale minorile e Mimmo Palermo dell’associazione “Siciliani per la legalità”. Scidà era circondato da stima e affetto. Scontato ma non inutile l’appello per l’unità d’azione delle associazioni nella lotta antimafia. Pioletti che è professore universitario nella stessa città di Scidà – Catania povera d’idee e d’arte (che se c’è nessuno vede), immersa nella palude di un potere frammentato, occulto o visibile, cupo e solidale a se stesso (la città del consenso diceva Scidà) – ha individuato sei punti come chiavi di lettura. Sei motivi dominanti sui temi della criminalità. Attenzione costante al terreno di coltura della mafia, piani alternativi per un nuovo sistema economico, analisi costante del territorio (bisogna impossessarsi del territorio), complicità del sistema politico, alchimie delle leggi elettorali «costruite e imbalsamate a uso e abuso delle classi dirigenti», infine colpe della magistratura («i magistrati non sono angeli»). Le tracce sono complesse, i rimedi rivoluzionari. C’era una questione che stava a cuore al magistrato più di qualunque altra. La chiamava «la disonestà amministrativa».
Il volume contiene una dozzina di articoli e un dossier sulla magistratura catanese. Isola fatti che risalgono ai primi anni Ottanta. Con l’appalto della nuova sede della pretura di Catania, in via Crispi, debuttò per Scidà la noncuranza per il rispetto della legalità. Dopo l’omicidio Fava la città si trovò disarmata, preda della criminalità: i mezzi d’informazione tacevano. Quattro anni dopo le cifre riguardanti la delinquenza minorile e la corruzione erano spaventose. La classe dirigente, amministratori e magistrati, distratti da tutt’altro interesse.
Alcuni interventi erano già apparsi nel periodo caldo di tangentopoli. Scidà è netto nei giudizi. La pratica delle tangenti è alla base della lievitazione del debito nazionale. «Ha conferito all’indebitamento pubblico dimensioni catastrofiche; ha distrutto il territorio; esasperato la fiscalità». Con elegante controllo, chiamava «fisica degli interessi» la consuetudine che impediva la denuncia di corrotti e corruttori. La presenza di più mafie legate da interessi convergenti qualificava l’entità del potere nelle aree meridionali. «Il silenzio e la notte coprono fatti ben più corali, e vasti, e radicati, che la stessa mafia. Fatti di grande imponenza, dai quali la mafia ha tratto, qua e là, o nascimento, o materia per la crescita, ed ai quali essa rende, tra gli altri servizi, anche questo: di attirare sopra di sé l’attenzione, aiutando allo infittirsi dell’ombra intorno ad essi, e alle connessioni che ad essi la congiungono».
Da trent’anni a questa parte Scidà parlava di silenzio imposto a chi disapprovava il sistema. Adesso a detta del direttore di “Città d’utopia” la città dovrebbe chiedere «scusa a Titta Scidà». In visita alla scuola media “Cavour” di Catania, il magistrato aveva reso pubblici i giudizi sul proprio conto. Ma su internet il “caso” era già scoppiato. Per il combattivo Orioles, Scidà era un vero uomo antimafia non in quanto magistrato ma perché uomo della società civile, cittadino modello vicino alle associazioni nate sul territorio. Venne in una città adusa a chiudere occhi e orecchie sui propri peccati. Per Caruso, animatore del Gapa centro di aggregazione popolare nel quartiere di San Cristoforo e come Orioles promotore dei “Siciliani giovani”, in cima ai valori di Scidà c’era la giustizia sociale. A quel magistrato non bastava la poltrona perché voleva battersi sul territorio.
Le analisi di Scidà sono diventate coscienza comune. A Catania c’è un’altissima percentuale di omicidi e rapine – rispetto al totale nazionale –, non vanno affatto dimenticati il tasso di impunità e la disaffezione alle istituzioni. Conseguenze disperanti: scarsa fiducia da parte delle nuove generazioni e bassa percentuale di denunce. Ma a nessuno è concesso dire: non mi riguarda. Politici, imprenditori e mezzi d’informazione si trovano sulla stessa barca: come accusare gli altri senza colpire se stessi? Nessun potere è esente da colpe o responsabilità: dalle amministrazioni locali alla magistratura. I Pm non devono essere lasciati soli, da loro si deve pretendere efficienza non onnipotenza. Neppure i cittadini sono esentati dai doveri: «il mestiere di cittadino, in una democrazia, è mestiere gravoso. Ma solo accettandone gli oneri … si può impedire che la democrazia e la giustizia … si trasformino, dietro il permanere di ingannevoli facciate, nel loro contrario». E lo stato su tutti deve impadronirsi delle zone sottratte all’influenza delle norme. A Catania fino agli Ottanta si negava l’esistenza della mafia, anche se l’inquinamento mafioso era giunto a livelli altissimi e «la lotta tra i clan insanguinava la città». Catania era una città divisa, spezzata in almeno due parti. I poveri da un lato – quelli della Catania dannata e abbandonata – e i privilegiati dall’altro, quelli avvezzi a ottenere vantaggi in qualsiasi occasione.
Le questioni riguardavano e non da quel periodo, gli arricchimenti personali a danno delle risorse collettive. «L’urbanistica, i lavori pubblici, le erogazioni di danaro pubblico a titolo di contributo, le forniture degli enti pubblici, i contratti d’uso degli immobili, sono alcuni dei molti campi nei quali la torsione delle regole viene praticata, per decenni, come una sorta di regola». C’è una mafia che tutti conosciamo, o forse crediamo di conoscere, la mafia che mette “ordine”, che punisce chi non offre garanzie di impunità ma c’è un’altra mafia diceva Scidà. La mafia «dell’atto deliberativo, del decreto, dell’ordinanza; degli altri provvedimenti; e dell’omettere mirato». Mafia responsabile del declino urbano e sociale, che scende a patti con i gruppi malavitosi. Gli uni fanno spallucce e acconsentono al disarmo della città, gli altri procurano voti e costringono gli oppositori al silenzio. Una gabbia di verità negate o nascoste dalla quale è impossibile fuggire.
Come arrestare, almeno quello, il processo di dissipazione delle risorse pubbliche? La ricetta di Scidà prevedeva tre farmaci, l’effetto da sperimentare. Una collettività informata, sottratta alle mezze verità o alle menzogne dei mezzi di informazione locali. Una magistratura che non sia forte coi deboli e debole coi forti e che non si dia a condizionare se stessa. Semplicemente e felicemente lontana dalle mischie, terza. Infine un’azione determinante da parte degli intellettuali, anche se il magistrato sapeva che i chierici prediligono le garanzie dei sottomessi. Quando la libertà è utile sacrilegio. Eresia, appunto.
* Eresie di Giambattista Scidà (Rubbettino 2013)