Promessa. Qui non si parla delle sue sbornie. Neppure della parte sporca di Hollywood o di quanto fosse stronzo con tutti quelli che non sopportava. Non si parla neppure di donne. Niente Hemingway e niente Cèline. Nessun racconto sulle sue giornate da postino precario. Niente sesso. Nessun consiglio su come scrivere un romanzo che puzza di vero. Tanto certe cose non si insegnano. Non c’è neppure la malattia, i gatti, le scommesse, le risse, i colpi bassi sulle strade della beat generation e neppure di quella volta che disse a Ginsberg: «Sei finito, dopo Howl non hai scritto più nulla di decente». Tutto questo naturalmente Roberto Alfatti Appetiti lo racconta. È nella biografia Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski (Bietti, pagg. 300, euro 19). Quello che manca invece è la parte più insopportabile di Bukowski, cioè il poster. Bukowski è morto. È morto vent’anni fa e da allora è diventato uno stereotipo. Ogni tanto incontri qualcuno che assomiglia a Bukoswki e ti vomita addosso. Poi non si scusa perché è alternativo. Poi comincia a declamare, fingendo di biascicare, bestemmie banali sullo schifo del mondo. Poi ti dice che Hank è antiamericano e la sua scrittura rivoluzionaria. Poi occupa un teatro. E infine si fa pagare il conto perché è un’artista e per grazia divina e volontà della nazione va a scrocco. A questo punto per fortuna arriva una vera reincarnazione di Bukowski e gli chiude la bocca.
Il Bukowski di Roberto Alfatti Appettiti si mette a fare il poster solo se ha molto bisogno di soldi, se non è ancora abbastanza nervoso da mandare a quel paese i suoi lettori, se serve a rimorchiare. Il resto è uno che sogna di fare lo scrittore e ci riesce dopo i cinquanta. È disprezzo per accademici, colleghi, intellettuali e affini. È individualismo e egocentrismo. È quello che scrive. Sono le lettere che scrive a tutti quelli che gli scrivono. È menefreghismo verso le sorti del mondo. È rabbia verso i capatàz. È ammirazione per chi ha coraggio. È umano troppo umano. E ci sono tre figure che svelano la sua umanità. Tre uomini. Uno è il dolore, il secondo è l’occasione, il terzo è quello in cui sceglie di riconoscersi.
Non si sceglie il padre. Ti tocca in sorte e se ti va male lo disprezzi e ti disprezzi. Bukowski padre era un ubriacone di Philadelfia rotto in culo che abitava in via del nulla. Un fallito, ma questo è il meno. Il peggio è che ti picchia tre volte a settimana fino a tirarti fuori le budella. La paura è assomigliargli. Essere o non essere come lui. È quello che confessa nella poesia I gemelli. «Allargo le braccia come uno spaventapasseri al vento, ma non serve a niente: non posso tenerlo in vita, non ha importanza quanto ci odiassimo. Sembravamo identici, avremmo potuto essere gemelli, il mio vecchio e io. Questo è quello che dicevano… Va bene così. Concedeteci questo momento: in piedi di fronte a uno specchio, con addosso l’abito di mio padre morto, aspettando anch’io di morire».
Non si scelgono neppure i benefattori. Ti scelgono loro e ti cambiano la vita. Hank si arrabatta. Sogna di scrivere un romanzo, ma i racconti sono più veloci e lo fanno guadagnare. Serve un mecenate. Lo trova. Ora come cavolo gli è venuto in testa a John Martin di puntare sul poeta ubriacone? Oltretutto Martin è astemio. Non fa neppure l’editore. È un lettore seriale, un maniaco collezionista di prime edizioni, ma per lavoro fa il direttore di una ditta di forniture per ufficio. Questo signore della middle class trova i fondi per una casa editrice, la Black Sparrow Press, e passa a Bukowski 100 dollari al mese. È abbastanza per lasciare il posto da postino e scrivere romanzi. Uno dice: Martin sarà un riccone che non sa dove spendere i soldi? No, è solo uno che ha scommesso su un cavallo e ha vinto. È Bukoswski ad aver paura, perché un conto è sentirsi un grande scrittore, altro dimostrarlo. Ti dicono vai, non preoccuparti, devi solo scrivere. A quel punto o ti ubriachi o batti sui tasti. Oppure tutte e due le cose. Non con tutti funziona.
Gli ultimi tempi andava così. Quasi tutti i giorni stava lì, in quell’ospedale, seduto accanto al suo letto. «Mi trovai davanti a un omino sotto le lenzuola. Non gli rimaneva molto delle gambe. Gli avevano lasciato braccia e mani. La faccia era portentosa, da piccolo bulldog». Che si dicevano Chinaski e Bandini? Dicono che fosse l’italoamericano a parlare. Il diabete segna i giorni che ti mancano alla fine. Chinaski ascoltava. Trovi uno scrittore che riconosci come te stesso. Lo scovi nei romanzi dimenticati in una biblioteca pubblica. Dici al mondo che esiste un genio chiamato John Fante. Fai in modo che la tua fama lo renda immortale. Fai per la prima volta qualcosa di davvero grande per un tuo simile. Lo scegli come maestro. E finalmente ti ritrovi in lui. Bukowski come Bandini. Un personaggio che ha trovato l’autore. (da Il Giornale)