La rinuncia di Benedetto XVI è legittima. Il chiarimento arriva dallo stesso Papa emerito in risposta ad alcuni quesiti che il vaticanista de La Stampa Andrea Tornielli gli ha fatto recapitare: «Non c’è il minimo dubbio – si legge – circa la validità della mia rinuncia al ministero petrino». Ratzinger è netto e mette fine di prima persona al dibattito riesploso circa liceità canonica di quel gesto che ha reinterpretato la configurazione del ministero affidato al vescovo di Roma.
A guidare la fila dei sospettosi c’è Antonio Socci che su Libero del 12 febbraio così attaccava: «Il “ritiro” di Benedetto XVI si tinge di giallo. Perché emergono “dettagli” che impongono di interrogarsi seriamente». Quella proposta dal giornalista toscano è la rilettura del pontificato ratzingeriano sulla scorta di alcune vicende da cui si sarebbe potuta intendere la presenza di una fronda interna alla Curia romana che avrebbe premuto in favore di quel gesto tanto clamoroso.
Benedetto liquida quindi come «speculazione semplicemente assurda» ogni lettura chiamata mettere in dubbio la «libertà della decisione presa». I motivi della rinuncia restano quelli esposti durante il mercoledì delle ceneri dello scorso anno: «In questi ultimi mesi – spiegò il pontefice a pochi giorni da quell’annuncio letto in latino – ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi».
Ci sono almeno altri tre elementi che confermerebbero la convinzione di Ratzinger circa l’opportunità della rinuncia al ministero petrino per motivi connessi all’età. Il primo è nelle pagine del libro-intervista, scritto a quattro mani con il giornalista Peter Seewald, Luce del mondo: «Se un Papa si rende conto con chiarezza che non è più capace, fisicamente, psicologicamente e spiritualmente, di assolvere ai doveri del suo ufficio, allora – spiegava Ratzinger – ha il diritto e, in alcune circostanze, anche l’obbligo, di dimettersi».
Presagio di quella scelta – nella lettura postuma di vaticanisti e storici – ci fu la deposizione del pallio papale sulla tomba di Celestino V, il papa del “gran rifiuto, in occasione del viaggio del 2009 in Abruzzo dopo il terremoto. Guardando invece alla prassi di governo, nel 2006 Benedetto XVI fu il primo Papa della storia a dare il permesso al Generale dei Gesuiti Peter Hans Kolvenbach di convocare la Congregazione generale allo scopo di annunciare le proprie dimissioni. Una lunghissima tradizione imponeva che il capo dei gesuiti, quello che un tempo veniva chiamato il “papa nero”, avrebbe dovuto concludere il proprio mandato morendo. Ratzinger ha dunque favorito una discontinuità storica anche all’interno dell’ordine religioso da cui proviene l’attuale pontefice regnante.
Ed è anche sui rapporti tra Benedetto XVI e Francesco che si addensano speculazione circa una presunta e misteriosa “diarchia” ai vertici della chiesa romana. Una lettura che il Papa emerito cancella sul nascere. Nelle risposte recapitate a Tornielli si legge un passaggio riguardante il mantenimento dell’abito bianco e del nome papale: «È una cosa – scrive Ratzinger – semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non c’erano a disposizione altri vestiti. Del resto porto l’abito bianco in modo chiaramente distinto da quello del Papa. Anche qui – chiosa il papa emerito – si tratta di speculazioni senza il minimo fondamento».