Alla Sala Umberto il teatro civile è oramai di casa e la rassegna “impegnata” prosegue calcando il palcoscenico con l’ultimo lavoro di Gabriele Guidi “Nel nome di chi”.
Titolo pungente, ingentilito dal volto espressivo dell’attrice protagonista Antonia Liskova e dalla sua voce penetrante, sottile e piacevole, che ha dominato la scena per un’ora e venti di spettacolo. Quasi un monologo il suo, intervallato soltanto da fugaci apparizioni e giochi di luci. Provata da un lutto improvviso la Liskova è riuscita a mantenere dall’inizio alla fine un perfetto contatto con il personaggio interpretato, cedendo alle lacrime soltanto al momento dei saluti finali.
Per il regista nonché autore Gabriele Guidi coadiuvato da Ennio Speranza non deve essere stata una facile impresa. Lo studio si evidenzia nella sceneggiatura e pur non cedendo mai alla noia del nozionismo né alla banalità del complottismo, si deve misurare, in modo particolare nella prima parte, con la necessità di informare lo spettatore e la capacità di criticare senza giudicare la stessa informazione. Così la mimica della Liskova, le pause di buio, le voci fuori campo e le musiche sostengono e nel frattempo creano il punto di vista di questa giovane missionaria dubbiosa del senso odierno di cristianità, in un Occidente privo di speranza e di aspettative. La fede non si rinnega si anela per tutto il tempo e le accuse si tramutano in realtà in domande, non tendenziose sempre sommesse e rivolte a chi deve e può salvare la cristianità.
Lo Stato Pontificio al centro di una visione dualistica di bene e male: agli scandali di pedofilia, dello IOR, allo sdegno per la gestione dei beni immobili della chiesa cattolica si oppongono le opere di carità, numerose ed efficaci, grazie alle quali in tante parti del mondo e nella stessa Italia la fede entra nelle vite di chi è costretto a piegarsi dinanzi alla necessità. Ad un Occidente vizioso un Oriente genuino.
Manca tuttavia una posizione critica integrale dell’esperienza pontificale e nel percorso di ricerca risuonano solamente i nomi di Paolo VI e il Papa Ratzinger della pregressa esperienza cardinalizia, cui si attribuiscono delle omissioni, non si menziona l’altra facies dell’autorità della chiesa, altrettanto coinvolta in giochi di silenzio, seppur apparentemente più gioviale e aperta.
Il mistero si scopre alla fine essere soltanto silenzio, custodito nel nome di chi ha tramandato valori e un esempio che non ammette alcun fraintendimento.