Trent’anni fa, il 5 gennaio del 1984, la mafia uccideva a Catania il giornalista Giuseppe Fava. Dopo Peppino Impastato, fu quella la seconda volta che Cosa Nostra metteva a tacere un intellettuale. Per quell’omicidio oggi sono in carcere il boss Nitto Santapaola, Aldo Ercolano e il pentito Maurizio Avola, gli esecutori materiali. Ma Fava era soprattutto il direttore de Il Giornale del Sud e de I Siciliani poi.
Barbadillo ha rievocato quella stagione con Fabio Tracuzzi, collaboratore del giornalista ucciso e unico membro orientato a destra di quelle due redazioni che guardavano palesemente a sinistra. Un rilievo che lo stesso Tracuzzi rivendica con orgoglio: «Questa pecora nera, questo fascista, fu eletto da tutta una redazione di compagni, o quasi, come il loro rappresentante sindacale. Loro avevano fiducia in me non solo come collega, ma come uomo. Io andavo oltre le appartenenze ideali. Difendevo gli interessi del gruppo. Agivo, d’altronde, come qualsiasi altro uomo di destra avrebbe fatto. Nel libro di Antonio Roccuzzo, Mentre l’orchestrina suonava gelosia, che è appunto la storia de Il Giornale del Sud, parlando dell’occupazione della redazione a seguito del licenziamento di Fava, scrisse che quell’azione fa suggerita e guidata da Fabio Tracuzzi, il nostro rappresentante sindacale, fascista, ma il più compagno tra tutti noi».
Perché la mafia ha ucciso Giuseppe Fava?
Pubblicava delle cose che si sapevano già, ma che nessun giornale, La Sicilia in modo particolare, scriveva. Era un giornalista che non stava agli ordini. E che, per questo, andava sicuramente punito. Il suo fu un omicidio assolutamente ideologico.
Si spieghi meglio.
Fava stava creando una categoria di giornalisti come lui. E, tutto sommato, ci è riuscito. Se ci sono stati degli errori che la mafia ha commesso sono stati, appunto, gli omicidi eccellenti. Queste azioni non hanno mai fermato i fenomeni, anzi li hanno rafforzati. Quella categoria di giornalisti che Pippo ha cresciuto, penso a Riccardo Orioles, Miki Gambino, Antonio Roccuzzo, Claudio Fava, sono in tantissime redazioni. E sono tutti liberi. Ovunque essi lavorino.
Com’è che Fava è diventato una icona di una certa sinistra?
Fava non è mai stato comunista. Nel primo numero de Il giornale del Sud scrisse un editoriale, il titolo fu Socialismo, nel quale il mio mondo si poteva rispecchiare benissimo. Oltretutto, lui era un uomo libero, lontano da appartenenze di bottega. Parlava con tutti. Era un uomo a 360 gradi. Insomma, era un socialista vero.
Poi cosa accadde?
La sinistra, il vecchio Pci, e quindi il Pd, sono stati sempre bravissimi a impossessarsi dei cadaveri. Noi, dal Pci di allora, come I Siciliani, non abbiamo avuto nessuna mano d’aiuto. Così come non l’abbiamo avuta da altri. Non dimentichiamo che la sede del Pci di Catania era di proprietà di uno dei “Cavalieri del lavoro” attaccati da Fava e per la quale veniva pagato un affitto irrisorio. Di fatto, i “Cavalieri” non spartivano con la sola Dc.
Com’era Fava umanamente?
Era un persona straordinaria. Fava non viveva da uomo di sinistra, tutto ufficio e sezione. Noi non ci spiegavamo quando riuscisse a lavorare, la sua produzione era straordinaria. Scriveva articoli, sceneggiature, romanzi, disegnava. Lui poi la sera usciva, se ne andava a Taormina, spesso ci andavamo assieme.
E con lo sport?
Amava giovare a calcio, anche se era una schiappa. Lui si proponeva di portare il pallone perché diceva sempre che così lo avrebbero dovuto far giocare per forza. Era un allegro, un simpatico, uno con la battuta sempre pronta. S’incazzava quando era giusto che s’incazzasse. Era da prendere come un esempio, sia di uomo che di giornalista.
Quando hai avuto notizia della sua morte dov’eri ?
Ero a casa di Checco Rovella (leader del Movimento Politico Ordine Nuovo a Catania, ndr). Spesso stavamo da lui. Quella sera c’era una festicciola. Ad un certo punto arrivò suo padre, parlando a voce alta, ma guardando me, e disse che avevano sparato a Fava. Rimasi attonito. Accendemmo subito la televisione. Ricordo ancora che uno di quelli che diede la notizia fu Enrico Mentana.
Come ha reagito?
Chiamai subito al centralino de La Sicilia. Mi confermano l’agguato. Mi dissero che lo aveva portato all’Ospedale Garibaldi. Chiesi se era morto, ma non mi seppero rispondere. Scappai allora lì. Quando entrai nell’atrio, capì subito che Pippo era morto. C’erano tutti i miei colleghi in lacrime.
In quei momenti non pensi. Andammo poi tutti in redazione. Parlammo per ore. Per noi era già chiaro cosa fosse accaduto. Non c’erano altre spiegazioni: era stata la mafia. Nei giorni successivi all’omicidio ci sono stati una serie di tentativi di depistaggio. Ciò avvenne anche da parte di giornalisti. Allora ci furono rappresentanti regionali, istituzionali e lo stesso presidente catanese dell’AssoStampa che insinuarono qualcosa circa i sui rapporti con delle donne. La verità emerse durante il processo. Comunque, in quei primissimi momenti, il vero problema per noi era sul cosa fare. Eravamo tutti tra i venticinque e i trent’anni. Chi ci teneva uniti era Pippo e il suo entusiasmo. Poi abbiamo deciso di preparare lo stesso il giornale, di non fermarci. Ci dividemmo i compiti e ci mettemmo a lavoro. Riccardo Orioles scrisse un editoriale straordinario, che fu firmato da tutti noi. Chiedemmo, poi, dei pezzi a grandi firme del panorama italiano. Io contattai Giorgio Bocca, ma non fui fortunato. Credo che la sua segretaria non abbia inteso la situazione. Mi chiese un prezzo esorbitante. E lasciai perdere. E così continuammo quell’avventura.
Fu tutto come prima?
Inizialmente, sì. Alcune cose, poi, non furono più condivisibili. Ecco, mentre Pippo era uno che accoglieva tutto, dopo di lui, si creò un fortino che si chiamava I Siciliani. C’era chi stava dentro e chi fuori. Chi stava fuori era dunque un nemico da abbattere, non fisicamente, sia chiaro. A me quel clima non piacque più. E me ne andai.
E così, finisce la storia?
No, la storia non finisce mai. Sono in contatto con la Fondazione Fava. Quanto prima vorrei mettere su una rassegna dei film suoi. La storia non può finire. Pippo è sempre rimasto nel cuore di chiunque ha lavorato con lui.
Come nacquero I Siciliani?
Quando fu cacciato da Il Giornale del Sud, dopo due minuti, mi dimisi pure io. L’avventura de I Siciliani comincia proprio lì. In quel momento mi disse che si era rotto i coglioni di farsi licenziare e che dovevamo fondare un giornale tutto nostro.
Con quali soldi?
Decidemmo di fare una cooperativa di giornalisti. Ma ci voleva del tempo. Ne rilevammo una già esistente, ma non operante. Si chiamava Radar. Dentro c’era già Fava. Noi subentrammo ai soci già presenti. Orioles, poi, fece il logo. Prima de I Siciliani però abbiamo fatto altre cose, ma poco conosciute. Una tipografia commerciale, ma ogni manifesto stampato significava rimetterci immediatamente. Non sapevamo fare i conti. Su idea di Pippo creammo poi Walkie talkie, un settimanale scritto in inglese per i militari di Sigonella, dove raccontavamo la città. Fu un successone.
Economicamente, ci riuscivate a vivere con I Siciliani?
Assolutamente no. Facevamo quasi tutti altro. Una volta ebbi la proposta per una sostituzione a La Sicilia. Ero perplesso. Pippo mi disse che se non ci fossi andato mi avrebbe preso a calci in culo. Lui aggiunse che era per questo che stavamo lavorando, per mettere giornalisti nei vari giornali. In generale, più che guadagnare, ci abbiamo rimesso tutti, pagando per anni cambiali. Tolto questo, posso dire che il ritorno umano e professionale di quella esperienza fu senza prezzo.
Sul momento pensavate che quella sarebbe diventata una testata leggendaria, i cui numeri sono oggi da collezione?
Sì. Pippo ne era sicuro.
Cosa ne pensa della fiction Rai “I Ragazzi di Fava”?
Sono critico con il documentario di Antonio Roccuzzo. É sicuramente un lavoro apprezzabile, ma non rispecchia i fatti. Quando hanno presentato la fiction, lui ha detto di aver scritto questa storia perché raccontandola ai propri figli aveva capito che l’avrebbe dovuta raccontare a tutti. Gli ho scritto poi un messaggio in privato. Mi sono complimentato con lui. Ma gli ho aggiunto pure che anch’io avevo tramandato quella storia ai miei due figli e se loro dovessero vedere questo lavoro mi direbbero che gli ho raccontato un sacco di cazzate.