Nel salto dal grande pieno al grande vuoto, tutti vanno a cercare nuove sensazioni o abusano di quelle che conoscono. Anche Michael Schumacher. Che non è ingrassato, e fuori e dentro la pista sembrava un uomo ordinario con la saggezza del patriarca, dopo un anno davvero da ex pilota ha mostrato l’irrequietezza del vivere, la stessa che non lasciava a casa Bruce Chatwin. Prima si era ritirato dalla Formula Uno per la libertà di non aver più obblighi, poi perché si era reso conto che le piste segnano l’età più dei capelli bianchi, e non puoi tingere i tempi. Dietro il padre affettuoso, il marito fedele che lascia guidare la moglie Corinna – solo perché ha già preso un mucchio di multe –: c’è un sogno, quello di essere altro, che puoi inseguire anche stando in poltrona non solo consumandoti con le cadute in moto, le corse sull’acqua o sciando fuori pista. È quello che ci gira in testa e non raccontiamo. Sta nei dettagli, come sapeva Raymond Carver, quello di Schumacher è tutto nella suoneria del telefonino, sul Blackberry ha l’armonica di “C’era una volta il West”, il film di Sergio Leone, la musica che annunciava Charles Bronson, e dietro Armonica c’era Lilli e il vagabondo – così il regista aveva presentato il personaggio a Morricone nel chiedergli la colonna sonora –.
Tra curve perfette, vita geometricamente piana con residenza in Svizzera e un mucchio di energia da consumare in giro per il mondo, ecco come si sogna Schumacher, come uno che insegue la sua vendetta per il West, mentre tutto sta per finire, solo e selvaggio, anche se tutto – fuori da sé – dice il contrario, lo racconta come un giocatore di poker, un ciclista della domenica, un giovane pensionato che scende in Ferrari a comprare pane nero, salsiccia e birra per la cena dopo il calcetto e ogni tanto rilascia qualche intervista sul suo passato, rimette a posto i suoi record di gran premi vinti, si volta a vedere Juan Manuel Fangio che non può raggiungerlo, e sorride ai fotografi. Ma ogni volta che squilla il telefono si rimette in circolo il desiderio, riparte la macchina, no, non quella che tutti conosciamo, che gli altri piloti studiano nella speranza di mettersi in scia della leggenda, no, quella intima e particolare di un ragazzino che deve averla immaginato in un cinema della provincia tedesca, con un kart al posto del cavallo, e le vittorie tutte in fila come i trofei in bacheca, un’altra vita.
Schumacher si è spaventato una volta sola, e non quando ha avuto l’incidente a Silverstone, no, ma quando è morto Senna, quello fu un colpo a tutte le certezze che aveva accumulato: «Sono rimasto disperato e scioccato. Dopo la tragedia di Ayrton sono corso a fare testamento, prima non ne avevo mai sentito il bisogno. Se fai il mio mestiere alla morte non ci pensi spesso, altrimenti è meglio che vai a piedi. Se poi vinci ti rilassi, i successi sono un buon balsamo, danno leggerezza». E lui ne ha avuta tanta di leggerezza, anche poesia, quando corse nel giorno della morte di sua madre: spense la radio, e girò, solo, senza voci, consigli, girò fino a consumare la distanza che li separava, girò veloce fino a bordeggiare la perfezione che poi è la morte, come sapeva Armonica che la inseguiva e sa bene anche Schumacher, che è altro da come appare. Un uomo delicato, che fugge in Norvegia, che si rifugia al freddo, che va fuori pista, che ama il nord e il suo ghiaccio, perché è come i circuiti: ha sempre due lati, e non sai mai quale dei due ti sta fregando, e la vita è capirlo.
* da Il Messaggero