Avevo anche pensato più volte di lasciar perdere tutto.
Da un paio d’anni, quando ci si vedeva con Guido, e osservavamo l’avvicinarsi di questa ineluttabile scadenza, dicembre 2013, trent’anni dalla morte di mio fratello Carlo, si finiva sempre lì: “cosa facciamo?”, “un concerto? Un evento? Un raduno tra amici?”, “ce ne stiamo da soli in montagna a cercare un perché che probabilmente non arriverà mai?”.
Ma frequentemente faceva capolino la convinzione che fosse più opportuno non fare nulla. Non eravamo più gli stessi, il mondo non era più lo stesso: ognuno vagava per la sua strada, con il suo bagaglio di ferite, impegnato a districarsi tra gli appuntamenti che ogni esistenza ti presenta in maniera per ciascuno diversa: l’amore, il lavoro, la famiglia, il successo, i fallimenti, le delusioni, le vittorie, le sconfitte. Un andare avanti che, nel bene o nel male, ti allontana comunque da quello che eri trent’anni prima.
Poi venne l’idea. Ma perché non organizziamo un concerto a più voci, una specie di festival dove possano cantare i più vecchi e i più giovani adattando ai propri umori le emozioni e i contenuti delle nostre canzoni? Una cosa nuova, una cosa mai fatta? Per mettere nuova linfa nelle vecchie radici? Probabilmente per quel residuo concetto di militanza che ancora rimane nel fondo della nostra anima sapevamo che non ci si poteva tirare indietro. La ricorrenza andava celebrata e quello poteva essere il modo giusto.
Guido, più pragmatico e sicuramente più entusiasta di me, si buttò anima e corpo nell’organizzazione. Io, travolto dal suo entusiasmo, lo seguii, cercando di dargli una mano, seguendone le ispirazioni, aggiustandone il tiro e forse anche frenandone, con dubbi, preoccupazioni e perplessità, lo slancio che gli ha permesso di creare da niente un’organizzazione che non ho timore a definire perfetta.
Ma le mie apprensioni, malgrado la struttura del concerto prendesse forma e gli ostacoli venissero superati senza apparente difficoltà, non cessavano di angustiarmi.
Eravamo fuori tempo? Aveva ancora senso quello che volevamo dire con la nostra musica? I giovani di adesso, quegli stessi giovani che partecipavano a mettere in piedi la serata, parlavano la nostra stessa lingua? Cosa mai poteva esserci in comune tra noi ragazzi degli anni settanta e questi del duemilaetredici? Non rischiavamo il patetico, il ridicolo o, ancora peggio, quello che ho sempre odiato, la retorica del reduce?
Dubbi che mi hanno tenuto compagnia finché non si sono spente le luci e sono salito sul palco per il saluto d’inizio.
Lì si è rimesso tutto a posto…
Lì ho sentito che il cuore non era cambiato.
In quei volti, negli applausi, nella musica che prendeva forma, nella varie figure che si alternavano sul palco dando vita ad armonie a volte sicure a volte incerte, a interpretazioni più o meno in sintonia con il mio gusto, ho avvertito che se in trent’anni poteva essere cambiato tutto, non s’era modificato di un briciolo lo spirito che ci univa. Era come essere a casa: una casa che ci ospitava, differenti e variegati, ma con la stessa voglia di reclamare un’appartenenza. Di sputare in faccia a un mondo che non ci vuole digerire che si può essere diversi, che il nostro è il vero anticonformismo, che lealtà, onore e coerenza non sono termini obsoleti. Che ci si può accalorare per qualcosa di più del libero mercato, della tassazione IMU o di un posto di assessore. Che di un simbolo elettorale non ce ne si fa nulla se bisogna vendere la propria anima e la propria dignità.
Insomma, a farla breve, ho pensato, sull’ultimo accordo di “Amici del Vento”, che forse fra dieci anni, a Dio piacendo, potrebbe ancora avere senso organizzare qualcosa.
*da Cantiribelli.com