Lo dice anche Gad Lerner: «Le associazioni del lavoro autonomo – scrive su Repubblica – della logistica, del commercio, dell’agricoltura sono percepite chi si è impoverito come meri ingranaggi del potere. Sindacati e Confindustria non ne parliamo». È qui che nascono i “Forconi”, dallo «sbriciolamento di ogni rappresentanza sociale» che non accetta gli interlocutori classici. Nell’analisi del giornalista sul movimento di protesta – che a suo avviso anche per questo è cavalcata dalle destre aggettivate in tutti i modi negativi possibili – la colpa maggiore è quella di «una sinistra incapace di rappresentare il conflitto e di fornire risposte concrete al malessere».
La “reazione”del giornalista – la denuncia della destra che egemonizza la piazza – evidenzia di certo il disorientamento rispetto a una protesta i cui contorni sfuggono alla reconductio ad unum tipica dei processi collettivi (e corporativi) tanto cari alla sinistra: non scende in piazza l’operaio per l’operaio, il precario per il precario, l’insegnante per l’insegnante. Lerner non è il solo che, in questi giorni, rimprovera al mondo progressista tanto la genesi dell’ondata di protesta quanto, è il caso di altri come vedremo, la mancata interlocuzione con l’esplosione di malcontento generalizzato.
Marco Revelli ad esempio – sociologo e saggista – sul manifesto ha iniziato a interrogarsi sulla vicenda, aprendo le danze a una serie di riflessioni che partono dal sottolineare per la sinistra «l’esodo dai luoghi della vita». Revelli lo ha fatto analizzando una delle piazze più calde della protesta, Torino. I manifestanti di piazza Castello o delle banlieu torinesi «non erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società disgregata. E sarebbe un errore imperdonabile liquidare tutto questo come prodotto di una destra golpista o di un populismo radicale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squadre. E i cultori della violenza per vocazione, o per frustrazione personale o sociale. C’era di tutto, perché quando un contenitore sociale si rompe e lascia fuoriuscire il proprio liquido infiammabile, gli incendiari vanno a nozze». Secondo il sociologo però «non è quella la cifra che spiega il fenomeno».
Anche Angela Azzaro, giornalista e scrittrice che da due anni segue il fiume carsico dei forconi in giro per l’Italia, si è interrogata sulla natura della protesta. Su Gli Altri si è chiesta – proprio a proposito di chi indica il problema nella presenza ai presidi dei movimenti di destra – «come possono queste obiezioni inficiare le richieste e la legittimità di chi si presenta agli italiani, come testimoniano i racconti del giornali, senza bandiere di partito, senza vessilli identitari, senza più né destra né sinistra? Anche perché la protesta divampa in tutte le regioni con specificità diverse che non possono essere racchiuse in un unico schema». Azzaro, alla fine, arriva al punto: «Il problema è un altro: la novità che questi movimenti rappresentano e che spiazza un po’ tutti». Rispetto a questo, però, la giornalista denuncia i limiti di una certa letteratura per spiegare i forconi: il fatto che per molti sia «meglio allora ricorrere ai vecchi ragionamenti, fermarsi alla storia che fu, mettere davanti le proprie certezze ideologiche».