Muore l’uomo che mise in bustina i calciatori, che saltava dalle Maserati al formaggio passando per le figurine e il petrolio, attraversava il Sudamerica in motorino con la fantasia nelle tasche e l’ingegno nelle mani: Umberto Panini, l’uomo delle macchine. Il meccanico che capì come imbustare le figurine e creare l’effetto sorpresa oltre che il modo migliore per portarle in giro, il ragazzo che si era perso per il mondo ma seppe tornare a casa per reggere l’impresa: quella di farci completare l’album. L’ultimo fratello dei quattro che regalarono a noi bambini: le figurine dei calciatori. Il tecnico che aveva creato la Fifimatic, il macchinario per imbustare le figurine, con lui c’erano Giuseppe l’ideatore, Franco l’addetto all’amministrazione e Benito alla distribuzione. Era la parte romantica della famiglia, con una vita piena di colpi di scena, partendo da una edicola, quella di mamma Olga, in Piazza Duomo a Modena. Diceva che la povertà era una buona compagna di vita, per questo si era inventato un passatempo semplice ed economico, fino a farsi rosario di ricerca: “celo, celo, manca”. Una vita da farci un album di città e gente, con un mucchio di storie. Andò in Venezuela ad occuparsi di ricerche petrolifere, e festeggiò il suo ventisettesimo compleanno con l’orchestra della sua nave in mezzo all’Atlantico, girò il paese in motorino, da povero, dormiva nei campi, legandosi una fune alla gamba e nascondendo nell’erba il ciclomotore per non farselo rubare. Poi arrivò la lettera dei fratello che diceva: “Torna che l’America è qua” e dopo quella della mamma: “Ricordati della tua famiglia, della tua ragazza che ti aspetta, delle tue radici e ricordati che noi vediamo lo stesso cielo e lo stesso sole”.
Tornò, e cominciò il boom, il rettangolino di carta adesivo con la faccia dei calciatori, tra gli anni ‘70 e ‘80 divenne presenza fissa nelle mani, tasche, occhi e teste di tutti i ragazzini, gli eroi erano Rivera e Mazzola, la griffe Carlo Parola e la sua rovesciata, la ricompensa per la pubblicità era una figurina gigante, e sui campi i giocatori si rinfacciavano la presenza o meno nell’album Panini, storie di quando non c’era Sky e l’ossessione visiva. «Ogni giorno arrivavano nel nostro stabilimento due camion carichi di carta e ne ripartivano otto pieni di figurine che andavano nel mondo. Avevamo cinquecentocinquanta dipendenti solo a Modena, duemila complessivamente. Abbiamo sempre cercato di dare qualcosa di importante e di qualità a chi ci ripagava con affetto e fiducia». Perché le vite belle danno risposte complesse all’esistenza, e lui lo sapeva. Se quello che hai creato finisce per condizionare la vita degli altri, non in termini economici ma sentimentali, sei nel mondo dei giusti, e non ti accorgi della tua importanza: «Ho sempre fatto il meccanico. Ho dovuto inventare e progettare tutto il processo produttivo delle figurine. Tutte le nostre macchine erano uniche e di nostra produzione». E grazie a queste macchine che la Panini editore stampava cinque milioni di figurine al giorno, e ci vorrebbero Renato Caccioppoli e Max Planck per calcolare quanto fa in termini di gioia e stupore in giro per il mondo, una volta in Colombia ci fu una interpellanza parlamentare «sulle figurine che non si trovano», solo in Sudamerica potevano prendere davvero sul serio il mondo dei giochi.
Il primo fu Bruno Bolchi capitano dell’Inter, l’introvabile era Pierluigi Pizzaballa portiere di Atalanta e Roma, «Non trovavano la mia figurina, ma in campo, bene o male, c’ero!», diceva ironico il portiere, ed è solo un caso che Umberto avesse giocato in porta e tenesse la figurina del portiere nel suo armadietto. «Non abbiamo mai creato introvabili, era il caso, ci tenevamo che ogni bambino completasse il suo album. Tanto che mettemmo in piedi un servizio che si occupava di spedire le figurine a chi le richiedeva. Una volta fummo ossessionati da un bimbo, Giancarlo, che aveva fatto richiesta però non aveva messo l’indirizzo, e sembravano un commissariato, la mattina ci chiedevamo: Allora abbiam, trovato Giancarlo? Ecco era questo lo spirito. E ovvio lo trovammo. Eravamo la Panini, noi mantenevamo sempre le promesse». E dopo il picco massimo con l’Italia di Bearzot che vinse il mondiale, il consolidamento in paesi come Inghilterra, Spagna, Arabia, Germania e perfino nelle isole Molucche, perché la Panini faceva anche le figurine dei mondiali, fin dal 1970 quando proprio Umberto andò in Messico per comprare per soli 1500 dollari il logo del campionato, e in Egitto a risolvere la questione di dover stampare le scritte in senso contrario perché lì leggevano da destra verso sinistra. Era un mister Wolf che risolveva problemi, fino a quando non decisero di vendere all’editore inglese Robert Maxwell nel 1988 «da quel giorno divenimmo ricchi davvero e no, non tornai mai più in fabbrica», anche perché Umberto uscì dal ramo figurine ed entrò in quello formaggi, mettendo su “Hombre” una azienda agricola che produceva Parmigiano Reggiano, arrivando fino a farlo mangiare a Gorbaciov. Diceva di essere passato dalla felicità dei bimbi a quella delle mucche, non smettendo mai di far girare le sue diciassette Maserati. Perché è nei motori che lui sentiva la vita e trovava la felicità, e da una macchina è uscita anche la nostra. E d’ora in poi la sua figurina passa negli introvabili ma solo per rimanere nascosta nelle tasche della nostra infanzia.
(da Il Mattino)