(Il racconto è tratto dalla raccolta di prose brevi Amerikanskie kanikuly (Vacanze americane, 1999). Il malcapitato manoscritto di cui si parla nel testo è la prima stesura di Istorija ego slugi (Storia del suo servitore, 1981), la seconda opera auto biografica di Limonov; dopo il folgorante debutto francese II poeta russo preferisce i grandi negri (1979).F.P.)
—————————————————————————————————————-
«Questo passaggio non è davvero niente male, ma bisogna tagliarlo». «Perché bisogna tagliarlo se non è niente male?», voglio sapere io. «Perché la digressione prende quasi due terzi del capitolo», risponde lei: «Fa saltare la struttura». «E se trovassi il modo di riconciliarlo con la struttura?», azzardo. «Impossibile», mi fa: «In questo episodio lei sposta l’azione in California, mentre il resto del libro è ambientato a New York». «Mi faccia capire, adesso il mio povero protagonista non può neanche andare a farsi una vacation da qualche parte?». Lei non mi risponde neppure. Vorrà dire che proprio non si può.
«Nel suo manoscritto ci sono troppe scene di sesso». «Ma il protagonista è un maniaco sessuale!». «Sì, sì, va bene, ma è più che sufficiente se lo fa andare a letto con due o tre ragazze. Così sono troppe, lei si ripete, il protagonista si ripete». «Abbia pazienza, ma se lo faccio andare a letto con due o tre ragazze in tutto il libro che maniaco sessuale è?»
«I discorsi politici vanno tagliati. Il protagonista ragiona come un bambino delle elementari». «Può darsi», concedo io, «però scusi, ha delle idee radicali, e poi è uno psicopatico anarcoide». «Niente da fare, dice un sacco di castronerie». «Saranno anche castronerie, ma lo lasci parlare, no? È un maniaco sessuale e un avventuriero, mica un ministro delle Finanze con gli occhiali di tartaruga». «Niente da fare, i discorsi politici vanno tagliati». «Ok, facciamo come dice lei, tagliamo i discorsi politici».
«Questa parte è noiosa, via tutto». «Perché noiosa?», domando io. «Il protagonista si prende gioco della protagonista: lei fa progetti per un futuro insieme, lui annuisce con la testa e intanto tra sé e sé risponde in modo completamente diverso. E un bastardo, ma un bastardo simpatico. Vive alle spalle della protagonista. A me sembra divertente…». «Neanche per sogno. È di una noia mortale». «Sarà…», penso io. Mi riprendo il manoscritto con le annotazioni della editor e torno a casa. A leggere.
* * *
Il protagonista fa una gita in Virginia per conoscere i genitori di lei. Nel margine c’è un’annotazione della editor: «In questo sviluppo ci sono molte cose buone, ma è meglio eliminarlo. Accorciare la scena del viaggio?»
Perché «è meglio eliminarlo» se «ci sono molte cose buone»?. Di nuovo la storia della quarantena? Vietato lasciare New York? E come si fa ad accorciare la scena del viaggio? Raccontandola con un telegramma? Due telegrammi? In stenografia? «L’arco della protagonista femminile è una pizza clamorosa. Tutte queste informazioni a casaccio su di lei, che barba. Non saprei davvero che cosa proporle, tagliare tutto non è possibile, e una controparte femminile, in sé, ci vuole. Questa qui, però, fa sbadigliare il lettore dall’inizio alla fine. Farebbe meglio a sforbiciare senza pietà le parti che hanno a che fare con lei».
«Anche il protagonista ha a che fare con lei», osservo stizzito: «Diamo una sforbiciata anche a lui?». È poi, volendo guardare, siamo tutti noiosi: i personaggi, gli scrittori. Mangiamo, lavoriamo, trombiamo, andiamo a passeggio… Niente di granché interessante, no? Che cosa pretende questa qui? Che cosa dovremmo inventarci per far la divertire? A un cer to punto il protagonista dice: «Avevo cercato più volte di convincerla a scopare con me». A margine, scarabocchiato in fretta e furia, c’è un appunto della editor: «Informazione del tutto superflua». «Ma ci mancherebbe!», mi inalbero in cuor mio: «Era l’unica cosa che meritava di essere detta».
Il protagonista ha trovato lavoro come cuoco in un ristorante. Che cosa ne pensa la mia editor? «Tagliare questo episodio. Peccato, però!». Ormai l’autore ci ha fatto il callo: ogni tanto bisogna tagliare questa o quella parte, anche se è un peccato. A poco a poco inizia a intravedere l’ideale letterario della sua editor: le piacciono i personaggi che si muovono il meno possibile. Se solo potessero fare a meno di uscire di casa! Nel libro, a un certo punto, compare un personaggio secondario in sedia a rotelle, Anthony. L’autore si domanda se non sia il caso di venire incontro alla sua editor e fare di lui il protagonista. Anthony non è il tipo da prendere l’aereo per la California o l’autobus per la Virginia. Nessun ristorante lo assumerebbe come cuoco. E poi quale miglior pretesto per sbarazzarsi della protagonista femminile, una sana e vogliosa ragazzotta americana? Una così non saprebbe proprio che farsene di Anthony, paralizzato dal collo in giù. Non ci potrebbe neppure giocare a carte.
La editor è fissata con il domicilio fisico del protagonista, roba da non crederci. A pagina 163, mentre passeggia all’angolo tra la sesta avenue e la nona strada, il protagonista viene fermato da alcuni membri di una comune sessuale interessati a reclutarlo. «Le nostre ragazze l’hanno notata», spiega uno di loro, un giovanotto con la barba. Il sogno sta per avversarsi… Ma la nostra editor, sempre vigile, ha già preso per la manica il protagonista e lo strattona via. L’appunto a margine è totalmente assurdo: «E ora di tornare a casa!». Ma vaffanculo, va! Adesso il protagonista non può neanche andare a passeggio. Puoi scordarti la comune sessuale, dietro front, sciò, ti sei già divertito anche troppo. Razza di stronza, si è piantata lì all’angolo e spara cazzate.
Una delle pochissime note in cui la editor suggerisce di ampliare invece di tagliare è in una pagina in cui il protagonista si precipita al bar. «Aggiungere allusioni avarie disavventure», prescrive l’appunto a margine. Ma perche mai!? Uno non può andare al bar perché ha voglia di bere qualcosa? Così, per il piacere di farlo?
Chiedo scusa, in realtà c’è un altro punto in cui la editor mi propone di aggiungere roba invece di tagliare: il breve episodio in cui i due protagonisti incontrano il fratello di lei, Michael, musicista e tossicomane. La nota a margine è molto interessante: «Troppo breve. Aggiungere informazioni specifiche sulle droghe che usa». «E adesso che le prende?», mi dico io, «Forse è una tossica anche lei e vuole fare la conoscenza del fratello Michael?». Forse, un dettaglio sfizioso nella descrizione con cui lo presento nel libro ha attirato la sua attenzione: «Capelli scuri, corti, sfumati sulle tempie. T-shirt nera e soprabito di cuoio portato diretta- mente sulla maglietta. L’ultima moda del teppista. Sulla guancia ha due o tre tagli fatti con il rasoio. Non è un bell’uomo, ma ha un fascino severo, virile». Sta a vedere che la editor ha gusti sadomaso? No, non è il tipo. A pagina 180 ha eliminato senza pietà Sarah, una ragazza ebrea calva che porta una parrucca. Maledizione, perché proprio Sarah? A me sembrava tanto carina… Insieme a Sarah spariscono anche tutti i suoi amici, tra cui il sadico Raphael, una creatura magnifica, l’ornamento del mio romanzo. «Far sparire tutta questa gente!», ha decretato senza il minimo rimpianto. «E ti pareva… Fascista che non sei altro!», ho borbottato tra me e me.
Un po’ alla volta il protagonista del libro finisce per ritrovarsi solo. Io lo avevo immaginato e descritto come un fallito dal carattere socievole, ma a forza di impicciarsi la editor lo ha trasformato in un misantropo senza amici. Non va mai da nessuna parte, non esce di casa, non vede nessuno. Per lui, il sesso è la cosa più importante del mondo, eppure la editor ha stabilito che può scopare sì e no due volte all’anno.
«Una domestica non diventerà mai una signora», sospira qualcuno a pagina 220 del mio manoscritto. La frase è sottolineata, non cancellata, e a margine si legge un’esclamazione perplessa della editor, ferita nel suo orgoglio femminile: «Suona strano. Ha poco senso per un lettore americano. Quello che conta è voler lo davvero, no?».
Quanto siamo diversi, io e la mia editor, sospiro sconsolato. Dal punto di vista di uno come me, che ragiona da russo, col cazzo che una può diventare una signora se vive nel mondo di una domestica, se in quel mondo c’è nata, da qualche parte in South Dakota. Se ha le mani, le gambe e il culo da domestica… Le dita, le unghie da domestica… Signore non si diventa, si nasce, nell’agio e nella quiete, rifletto con una punta di affettuosa compassione per la mia editor, che queste cose non le sa. E il concetto alla base dell’intero romanzo: il protagonista cerca in tutti i modi di fare di una domestica una vera signora, con scarsi risultati… La domestica ce la mette tutta, ma non c’è niente da fare: si può sognare quanto si vuole, ma è inutile. Le americane sono convinte che tutto sia possibile, credono che basti sposare il proprietario di una fabbrica di calze, biancheria intima o ketchup per diventare una signora. Gli Stati Uniti sono un Paese giovane, sono vivaci e pieni di energia. Io per me non ci credo. Chi me lo fa fare? Non sono buono neppure di uscire a fare jogging la mattina per cercare di campare più a lungo. Bevo, sono un alcolizzato.
Quest’altra poi è addirittura un crimine! Tra le tante pagine cassate a sangue freddo c’è anche la luce dei mici occhi, il mio orgoglio: la scena in cui il protagonista incontra «la ragazza in pelliccia di cincillà», il sogno di qualunque uomo. La incontra su un enorme campo da golf inondato di sole, in riva all’oceano, dove è in corso un salone automobilistico. Quel mostro della mia editor non si è neppure degnata di scrivere: «Niente male, ma bisogna tagliare» o «Molto interessante, ma purtroppo non si può tenere». No! Ha liquidato il tutto senza neppure battere ciglio. Ha depennato senza la minima compassione le accorate lamentazioni del mio protagonista: «Crede che sia stato facile, per un amante della bellezza, vivere in un albergo come il Diplomat, dove la cosa meno brutta erano le facce dei papponi, che almeno erano sane? Crede che sia stato facile, per un uomo che aspira alla bellezza, scoparsi Rena, la ballerina romena con la faccia da scimmia?». Non le è neppure venuto in mente di risparmiare il mio inno alla bellezza, di lasciarlo dov’era. A lei interessa la struttura, e il protagonista ha avuto la pessima idea di enunciare il suo credo in California, dopo aver abbandonato il posto di combattimento a New York senza aver chiesto il permesso alla editor. Sono tutte parole pronunciate in California, e quindi sono tabù. Vietato andare e venire dalla California.
Il protagonista non può assentarsi neppure per guadagnare qualche soldo nel Nord dello Stato di New York. Quando il mio personaggio, per sua sventura, diventa sterratore lo fa perché non ha altra scelta, non trova lavoro, il Paese è in crisi economica, ma l’indomita editor-sentinella tira una riga sul suo soggiorno a centocinquanta chilometri da New York e riaccompagna il fuggiasco nella Nuova Babilonia. «Ricominciare da qui», intima in tono severo a pagina 228.
A pagina 232, un complimento inatteso. «Bella chiusa!», osserva la mia editor a proposito del seguente passaggio: «Mi svegliai nel mio letto, nell’appartamento dell’83ma strada. Sulla mia spalla, abbracciato a me, dormiva Lëška. Proprio così, signori miei, l’uomo che sognava di farsi la stangona brasiliana era finito a letto con un robusto omosessuale dai capelli bianchi». Secondo me, non c’è niente di bello in questa chiusa. È triste. È un finale del cavolo. Ma forse la editor odia gli uomini e gode in cuor suo quando passano dei brutti momenti.
A pagina 283, in corrispondenza di un passo che dice «infilò il cazzo nella sua fessura, che iniziava a farsi appiccicosa», c’è una freccia che rimanda a un perentorio richiamo all’ordine con tanto di punti esclamativi, incuneato nello spazio vuoto tra due righe: «Sfoltire! Troppi fatti!».
A pagina 284, «non c’è alcun bisogno di questo Stanislav!». «Possibile che non serva mai nessuno? Le fanno tanto schifo i miei personaggi?», medito scuotendo tristemente il capo.
A pagina 326, il protagonista chiacchiera con una prostituta in un bordello. E una parodia di una famosissima scena di Delitto e castigo, ma la editor la liquida su due piedi con un laconico «Tagliare!».
«Orribile!», «C’è da uscire di testa!», «Non muore nessuno se leviamo questa pagina!», «Nel nostro ambiente c’è un proverbio che dice ‘Se volete trasmettere un messaggio rivolgetevi a uno sportello della Western Union’. Lo tenga a mente!». Quest’ultima osservazione si riferisce a una scena in cui il protagonista discute del problema del controllo delle nascite con un intellettuale danese e intanto gli torna in mente che deve scoparsi la padrona di casa polacca.
La scena conclusiva, il culmine dell’intero libro, è un tentato omicidio lasciato a metà. La editor è convinta che mi sia dilungato troppo. La cosa dell’omicidio, in sé, non le dispiace. Il fatto è che non le interessano le motivazioni psicologiche, le ha cassate tutte, una per una. Il suo approccio al problema è tipicamente americano: vuoi fare fuori una persona? Ammazzala, ma non stare a cambiare idea. Sento che disprezza il mio eroe, un buono a nulla che alla fine sceglie perfino di non sparare. Leggendo quel profluvio di osservazioni scarabocchiate nei margini e tra le righe della scena dell’omicidio, inizio a dubitare anch’io del mio protagonista. «Stai a vedere che sotto sotto non è un vero uomo», medito tristemente. «Meno parole e più ritmo!», osserva giudiziosa e implacabile la mia editor accanto a una freccia a matita che punta sulla frase: «Le mie dita si chiusero lentamente sul grilletto».
«Per loro è una cosa normale», rifletto timidamente, «da loro il tiro al presidente è uno sport nazionale. Sono dei professionisti, loro». «Io sono solo
un povero europeo pieno di scrupoli», mi dico sconsolato, «non c’è neanche partita!».
È lei, la editor americana, che cosa avrà apprezzato del mio libro? Scorrendo ancora una volta il mio povero manoscritto martoriato trovo un solo complimento con tre punti esclamativi. È l’unico passo che le abbia davvero detto qualcosa. Lo trascrivo qui di seguito. La scena è ambientata in una cucina. «Seduti in cucina in posizioni diverse facemmo commenti sui pantaloni in sintetico della marchesa, concludendo che gli Inglesi sono tutti dei gran provinciali, anche i nobili».
*Traduzione di Francesco Peri (tratto dalla web rivista sulromanzo.it “Sul Romanzo”, Anno 3 n.5, ottobre 2013, per gentile concessione del direttore Morgan Palmas)
http://issuu.com/sulromanzo/docs/sul_romanzo_anno_3_n_5_ott_2013