Ogni traccia è un tizzone rovente lanciato contro il conformismo negli anni del pensiero liquido, semplificato e striminzito come un tweet. L’omologazione è quella dei benpensanti, dei politicamente corretti, degli occidentalisti, degli indifferenti, dei nostalgici di un passato che non torna. Per sfuggire a questo gioco di incasellamento per mezzo di categorie senescenti, l’unico antidoto è la ricerca della scintilla di verità oltre il canovaccio della propaganda. E da questo lampo si accendono i “Fuochi” (pp.234, euro 14,50, Vallecchi), l’ultimo libro nel quale Pietrangelo Buttafuoco riannoda i fili di un “originario” itinerario esistenziale e politico. Lo sguardo dello scrittore diventa così pietrificante come quello di una Gorgone quando mette in risalto l’arretratezza della Sicilia, dove “l’unica cosa che si può fare è la villeggiatura”, perché l’ambizione di avere spiagge pulite o aeroporti moderni si scontra con l’insensatezza fatalista che diventa mito incapacitante.
Buttafuoco si addentra nella propria terra senza indulgenza. Ricorre alle storie note o poco note. Tratteggia i caratteri di politici naturalmente cinematografici, come Mirello Crisafulli e Totò Cuffaro; rende onore all’imprenditore isolano Sandro Monaco e riconosce nel siciliano “la lingua della politica” come codice di dissimulazione, celebrazione, purché tutto avvenga nel “metalinguaggio”. Poi ci sono i ritratti di testimoni del nostro tempo, da Jorge Haider a Silvio Berlusconi, fino a Mario Vattani, già console italiano a Osaka, profondo conoscitore della paideia dei giapponesi, che non rinuncia alle note ribelli con i Sottofasciasemplice, gruppo musicale che ha rivoluzionato la scena del rock identitario. Paolo Conte diventa l’icona dell’Italia “immune dalla parodia”, la Folgore è una brigata di eroi da preservare oltre ogni retorica, alla quale avvicinarsi attraverso la mediazione di Tomaso Staiti di Cuddia o di Sergio Claudio Perroni. Poi c’è Romano Mussolini e il suo “jazz d’antemarcia”, dal passo sognatore, Oriana Fallaci icona della “destra scimmiesca”, il comunismo e i comunisti come dignitoso contravveleno sulla strada della liberaldemocrazia. Due interviste come veri diamanti: a Norberto Bobbio, che confessa la rimozione “vergognosa” del passato in camicia nera da parte di una intera generazione, e a Eugenio Scalfari, sacerdote “del mestiere della giornata che è il giornalismo”. E tra Giorgio Bocca e la santificazione della Lapa brilla Paolo Isotta, sublime critico musicale del “Corriere della Sera”, “ultimo superstite di tremila anni di civiltà europea prima che l’età della tecnica e della democrazia avesse la meglio”. O Urgen Khan, junker baltico, generale dello zar e principe mongolo immortalato da Hugo Pratt in “Corte Sconta detta Arcana”, che nessuna biografia Adelphi riuscirà a rendere politicamente corretto: capo dell’ultima armata bianca, rifiutò di bendarsi gli occhi quando l’Armata Rossa lo fucilò e prima di essere finito dalle pallottole volle inghiottire, per portare con sé, la Croce di San Giorgio. Tra tutti gli affreschi di una galleria che racchiude l’Italia tra Novecento e Anni Zero, risalta infine Nino Buttafuoco, sindaco di Nissoria, deputato a Roma, a Palermo, a Strasburgo, protagonista dell’operazione “Milazzo”, simbolo del fascismo declinato dal sole di Sicilia: l’omaggio allo ‘zu Nino prende le forme del cuntu con il romanzo epico “Le uova del drago”.
I “Fuochi” sono bussola in forma di giornalismo (“sede della nostra vita sociale/ultima delle periferie”) nell’era del banderuolismo a cui fa da contraltare la coerenza di Beppe Niccolai, Giuseppe Berto, Alberto Burri e Gaetano Tumiati, a cui non potranno mai somigliare gli italiani che si rinnoveranno abiurando il proprio passato. “La fedeltà –scrive Buttafuoco – è stata ridotta a macchietta e la lucerna della dignità è stata tutta prosciugata. Fatto fu che Filippo Anfuso, ambasciatore a Berlino, uomo di grande fascino e di rara eleganza, dopo anni di prigionia in Francia, lacero e smagrito tornò nella sua casa di Catania. Si presentò al cancello della sua nobile dimora e, quando il maggiordomo si precipitò per allontanarlo immaginando di avere a che fare con un questuante, nel riconoscerlo, malgrado gli stracci, commosso gli disse: ‘Eccellenza, ma Vossia proprio a favore degli italiani si doveva mettere?’”.
Da che parte per la destra? A questa domanda lo scrittore siciliano non si sottrae e sembra tornare ragazzo, ai comizi di Catania di Giorgio Almirante, o mentre canta all’alba del Gianicolo l’Inno a Roma insieme a Vincino, vignettista del “Foglio” con una brevissima militanza a Palermo nella Giovane Italia, negli anni di Paolo Borsellino e Pierluigi Concutelli. Quando la mozione degli affetti cede il passo alla riflessione si arriva al dunque, al bilancio che “il Segretario” non ha mai voluto fare, e all’occasione perduta dalla destra di governo, che in Rai passerà dalla “ricotta di zoccole” alla pratica misera della “sostituzione di figurine”. E allora si viene assaliti dal rammarico, per non aver dato una rotta da seguire a chi voleva entrare “nella viva carne d’Italia”, abbeverandosi alle pagine di “Tabularasa” con gli scritti di Niccolai, Paolo Signorelli e di Antonio Carli, che nel primo editoriale tracciava con nettezza il perimetro di un’antropologia differente: “Chi non comprende il rischio senza interesse, la passione senza vizio, non può capirne le motivazioni”.
*dal Secolo d’Italia