Quando il contenitore prende il sopravvento sul contenuto è il momento che bisogna dismettere il contenitore. Fa eccezione solo la botte con il vino. L’altra sera, domenica, ospite di Chetempochefa: André Agassi. Ecco.
Il pretesto per invitare un ospite un po’ inconsueto come André Agassi, un grande campione del tennis di ieri, è la pubblicazione, per nulla recente peraltro, del suo libro di memorie: “Open”, edito da Einaudi.
Nel libro Agassi svela l’odio provato da adolescente, e poi nella sua maturità da top ten, per il tennis. Già, proprio per lo sport che lo ha reso grande, ricco e famoso. E di come la sua vita sia iniziata solo alla fine della carriera tennistica quando ha potuto iniziare a realizzare i suoi progetti e sviluppare tutte le inclinazioni della sua indole che era stata costretta a giocare all’interno del rettangolo di gioco, corridoi esclusi, rispondendo agli stimoli serviti, senza mai un doppio fallo, dal coach più duro che un adolescente possa avere: il padre. Della vita, quella di oggi, piena di soddisfazioni e di interessi, primo fra tutti, quello della fondazione che porta il suo nome, e attraverso la quale il campione di Las Vegas sta sviluppando un importante progetto: quello di creare scuole per giovani che non possono permettersi un’adeguata istruzione.
Il contenuto ha preso, dunque, il posto del contenitore. Perché André Agassi è diventato lo strumento per dire altro, per raccontare una storia che s’incasella perfettamente nella linea editoriale del programma ospitante. Come non pensare a El Sistema, il progetto di avviamento alla musica ideato dall’economista e musicista Abreu per togliere i bambini dalle strade e che a Chetempochefa è stato raccontato più volte da Claudio Abbado.
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Quella di Agassi è una storia molto comune nel mondo del tennis. Forse molti non lo ricordano ma Guillermo Perez Roldan, giocatore argentino che raggiunse la tredicesima posizione nel ranking alla fine degli anni 80, scoppiò letteralmente e dovette chiudere anticipatamente la sua carriera per via dell’eccessiva pressione che il padre, manager e allenatore, ha esercitato su di lui. Lo stesso è stato per Jennifer Capriati. Ricordate la giovanissima reginetta del tennis? Dopo essere stata numero 1 del mondo, stremata dalla pressione dei genitori che ne avevano fatto una gallina dalle uova d’oro, era finita col buttarsi via in droga e alcool. E, ancora, in tempi più recenti, per rimanere in campo femminile, la giovane danesina Wozniacki ha più volte manifestato la sua sofferenza per la presenza assillante del padre.
Il tennis, come altri sport, e lo stesso vale per il canto o la musica, diventa assai spesso l’occasione per alcuni genitori di utilizzare i propri figli per realizzare quello che loro non sono stati in grado di fare.
Riuscire in uno sport, nonostante il talento, è un’impresa molto impegnativa. Si è obbligati a sottostare ad una disciplina ferrea sin da piccolissimi. Tutti i più grandi del tennis hanno iniziato a giocare quando avevano 3, massimo 4 anni. E sin da allora si sono dovuti allenare con ritmi praticamente già da professionisti. Per molti, l’infanzia e l’adolescenza diventano qualcosa di terribile. Una stortura. E non c’è immagine più grottesca per rendere l’idea di quella dei bambini che partecipavano a “Bravo Bravissimo”, varietà condotto da Mike Bongiorno. Ricordate?
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Per chi non è animato dal sacro fuoco della competizione sin dentro le più profonde sequenze genetiche non può finire diversamente. Il mondo intorno diventa claustrofobico, strapagato e pieno di successi e soddisfazioni solo apparentemente. Un canovaccio ripetitivo ed estremamente competitivo.
In campo si è soli con la racchetta, la palla e il rettangolo di gioco dove le linee bianchissime delimitano lo spazio facendolo un recinto opprimente. Proprio come capitava al protagonista della Novella degli Scacchi di Zweig. Malgrado l’infinito numero di colpi e di soluzioni vincenti, il tutto avviene in un orizzonte finito, limitatissimo che richiede un’iper-specializzazione. Ecco perché Czentovic era un vincente. Ecco perché tanti scoppiano e non ce la fanno.
Del kid di Las Vegas non ricorderemo il suo libro, anche se è già stato, pur senza l’endorsement di Fabio Fazio, un successo planetario. Ricorderemo i suoi schiaffi anticipati di diritto e di rovescio. La sua capigliatura meshata fuori dal cappellino che andava a fare pendant con il resto della tenuta della Nike costruita ad hoc sul suo spirito che avrebbe voluto ribellarsi e che si sfogava attraverso un apparente anticonformismo. Ci ricorderemo il suo completino bianco in ossequio alla Regina a Wimbledon e il suo inginocchiarsi dopo il punto che gli consegnò il successo sull’erba inglese.
Ci ricorderemo il campione che ha vinto contro gli avversari e contro sé stesso in quel tormento tutto personale che, chi gioca a tennis lo sa, è il momento più bello della partita. Quando sotto l’asciugamano in un cambio di campo tutto appare chiaro, le energie si ripresentano al completo, e le linee del campo s’illuminano di una luce sovrasensibile guidando l’occhio e il braccio.
Se Fabio Fazio vuole parlare di tennis e di letteratura lasci stare Agassi e inviti a Chetempochefa John McPhee. Il più grande libro sul tennis è “Tennis” edizioni Adelphi, la traduzione italiana di “Levels of the Game” libro del 1969 che, stranezze dell’editoria, è arrivato in Italia solo quest’anno. Un libro scritto da uno scrittore, appassionato di tennis che lo ha praticato a livello di club. Un libro in cui, grazie al tennis che è metafora di vita, McPhee ha raccontato l’America attraverso il duello, tra i ciuffi d’erba di Forest Hills, tra Arthur Ashe e Clark Graebner. Per l’appunto. Perché se anche Graebner fu tennista per volere del padre, per ogni Graebner c’è sempre un Arthur Ashe.