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Contro la decadenza, la priorità è (anche) difendere la lingua nazionale

La battaglia della rivista francese "Elements": rilanciare l'apprendimento e rilanciare famiglia e autorità

di Mario Bozzi Sentieri
6 Ottobre 2025
in Scritti
5
Un bosco di tricolori

Da Oltralpe, attraverso la rivista “Éléments”, ci arriva l’invito a sottoscrivere una petizione in difesa della lingua francese. La denuncia è ben motivata. Essa – scrivono gli autori della petizione –  si inquadra nel processo di “decivilizzazione  in atto”: “Le cause  sono ampiamente conosciute, come la decostruzione della famiglia e dell’autorità, e devono essere affrontate con decisione. Esiste però un fattore sottostante alla decivilizzazione che influenza tutti gli altri: la perdita del controllo del linguaggio”. 

Il quadro offerto è disarmante. Gli insegnanti sono unanimi: la padronanza del francese tra i 15-25 anni è sempre più debole. Si tratta di ortografia, naturalmente, ma anche di sintassi, di vocabolario, di uso dei tempi e più in generale di difficoltà a comprendere e sintetizzare i testi e ad articolare le idee. In un liceo della Franca Contea, un insegnante constata che, nel primo anno dei corsi, solo due terzi degli studenti sono a loro agio con la lingua. Da qui l’invito:  “E’ urgente difendere la lingua francese. E, prima di tutto, fermare il massacro del suo apprendimento”. Il fine:   rimettere il francese in primo piano, per ridare il gusto della lettura, dell’ortografia, della parola giusta, della “bella parola”, invitando – attraverso la petizione –  insegnanti, editori, giornalisti o uomini politici, a fare tutto il possibile per salvaguardare la lingua francese e soprattutto  il suo apprendimento.

E l’Italia ? Noi non stiamo meglio della vicina Francia. In Italia una persona su tre non è più in grado di leggere un libro o un testo lungo. A denunciarlo il recente Report OCSE 2025 “Uno sguardo sull’educazione” che  da un lato conferma una tendenza già in atto da anni, dall’altro testimonia il rischio di un analfabetismo di ritorno.

In un mondo dominato dalla digitalizzazione, in cui la maggior parte delle interazioni avviene attraverso gli schermi dei dispositivi e delle piattaforme social, la capacità di leggere, comprendere e mantenere l’attenzione su testi articolati o semplicemente più lunghi sta via via sempre più scomparendo. Tutto ciò comporta che una notevole parte della popolazione italiana stia lentamente perdendo l’alfabetizzazione funzionale, ovvero quella capacità di saper utilizzare le proprie competenze linguistiche per orientarsi nella complessità del mondo contemporaneo. La mancanza della lettura affievolisce la capacità di distinguere tra il vero e il falso, tra l’informazione e la manipolazione.  Il formato dominante è ormai quello breve e superficiale; esempi ne sono lo status, il post, il titolo clickbait, il reel, il video breve da 15 secondi. Il risultato è che oggi sempre più persone, sia giovani che adulti, confessano di non riuscire a leggere più di una o due pagine senza distrarsi.

C’è poi l’uso eccessivo degli anglicismi. Troppo spesso termini che potrebbero essere chiari nella nostra lingua, sono sistematicamente  sostituiti con parole inglesi, soprattutto in ambito politico, nelle amministrazioni pubbliche, nelle comunicazioni delle imprese e sulla carta stampata. Da “form” (modulo) a “market share” (quota di mercato),  da “fashion” (moda), a “step”  (per indicare le tappe di una programmazione),  da “mission”  (compito o  missione) fino alla “stepchild adoption” (adozioni del figliastro) e a “recovery plan” (piano di recupero)  è un proliferare di anglicismi, troppe volte immotivati, a cui sarebbe opportuno  porre un freno.

Tutto ciò che richiede tempo, concentrazione e riflessione viene evitato; e questo ha un prezzo altissimo, non solo di tipo culturale ma anche sociale ed economico. Per non parlare dell’ennesimo paradosso di una Costituzione che sul tema della lingua appare a dire poco distratta. In sede  di dibattito alla Costituente l’argomento venne appena sfiorato. A sollevare il problema della lingua, nel luglio del 1947, furono gli onorevoli Emilio Lussu e  Tristano Codignola, preoccupati per la tutela delle minoranze (sancita dall’ articolo 6), che è peraltro esplicitata  dall’articolo 3, dove si istituisce il principio di uguaglianza ed è  affermato  il divieto di discriminazione linguistica.

In breve: gli articoli 3 e 6, parlando di uguaglianza e tutela delle minoranze, sottintendono il fatto che esista una “maggioranza linguistica”, anche se nella Costituzione la lingua italiana non viene citata.  Una ventina  di anni fa,  su richiesta della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati, è stata interpellata la stessa Accademia della Crusca.  Gli accademici  proposero di inserire la formula: “L’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica Italiana” nell’articolo 12 della Costituzione, che parla di simboli come la bandiera. Ma  non se ne fece niente, lasciando ancora  l’Italia “sguarnita” rispetto agli altri Paesi. In Europa la maggior parte delle costituzioni ha infatti indicazioni riguardanti l’ufficialità della lingua.

Di legislatura in legislatura non sono mancate peraltro proposte riguardanti lo status e l’uso della nostra lingua. Purtroppo però  oltre i buoni propositi non si è andati, forse  perché è mancata quella “spinta” comunicativa in  grado di portare il tema all’attenzione della più vasta opinione pubblica, sollecitando i necessari riscontri emozionali e spirituali, insieme ad altri richiami identitari. Un po’ come stanno provando a fare gli amici di “Éléments”, preoccupati della “perdita del controllo del linguaggio” e del conseguente processo di decivilizzazione. 

La battaglia – cerchiamo di essersene consapevoli – va ben oltre la difesa della lingua. Essa ha una ricaduta immediata sull’appartenenza a una determinata comunità, sulla formazione dei cittadini e la comunicazione, perfino sugli scenari europei ed internazionali. La lingua è insieme passato, presente e futuro, declinati simultaneamente e quotidianamente.  Comprenderne  l’importanza   vuole dire   valorizzare un patrimonio inestimabile di bellezza e di sapienza, e dunque   “ritrovarci”, come venne evidenziato nel Risorgimento, a partire dalla capacità seduttiva della nostra lingua. In fondo l’italiano è il quarto idioma più studiato al mondo,   al punto da essere stato  definito da Thomas Mann “la lingua degli angeli”. Non dimentichiamolo. Ed operiamo di conseguenza.

 

Mario Bozzi Sentieri

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Mario Bozzi Sentieri su Barbadillo.it

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Tags: decadenzaelementslingua italianamario bozzi sentieri

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Comments 5

  1. Tullio Zolia says:
    1 mese ago

    M.B.Sentieri : BRAVO !

  2. Sandro says:
    1 mese ago

    Ottimo articolo

  3. Guidobono says:
    1 mese ago

    Tutto vero. Penso che i miei bisnonni parlavano a stento l’italiano, che non usavano praticamente mai. Imperversava a tutti i livelli sociali il piemontese. I nobili studiavano l’italiano alla pari del francese. Il vecchio stato sardo-piemontese era ufficialmente bilingue. Si scriveva e parlava francese nella Savoia e nel ducato di Aosta. I sovrani il francese ed il piemontese, con il servizio, lo stuolo di camerieri/e con i quali convivevano. Nelle Valli del Piemonte patois franco-provenzali o direttamente occitani. Quello che ora diciamo dell’inglese da noi valeva per il francese. L’italiano era la lingua del musico e del prete, ma non del popolo.

  4. Calogero Antonelli says:
    1 mese ago

    « […] la maggior parte degli ufficiali provenienti dalla vecchia armata sarda continuava imperterrita a parlare e a impartire comandi in dialetto piemontese! […] e il regolamento di disciplina avvertiva espressamente: “La lingua da usarsi in servizio è la lingua italiana”. Per molte reclute, soprattutto meridionali, la buona volontà non bastava perché erano analfabeti e abituati a esprimersi solo in dialetto […] Per gli ufficiali piemontesi si trattava di un punto d’onore, e ne nascevano episodi tragicomici […] Così raccontava un giovane ufficiale destinato a un tragico e complesso destino, Emilio De Bono, […] “Il sergente piemontesissimo insegna: ― Questa si chiama secchia, ma a l’è peui sempe na sia. Custa adès, a la ciamo scopa, ma l’è mac na ramasa […] ― Poi interroga un soldato: ― Come si chiama questo? ― e accenna al sottogola ― Grumetta ― Its l’as rasun. Ma it ses un aso, perché a dio cadev ciamese sotogola” […] E non c’è da stupirsi se con questa gustosa traduzione interlineare siculi e calabresi cominciassero ad avere le idee un po’ confuse […] »

    (Domenico Quirico, “Adua. La battaglia che cambiò la storia d’Italia”, Mondadori – Milano 2004; pagg. 82-83)

  5. Guidobono says:
    1 mese ago

    Il piemontese è come il catalano. Ma quelli han saputo imporlo, noi no…

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