Omero racchiuso tra Christofer Morley di “Cavallo di Troia” e Beppe Fenoglio di “Il partigiano Johnny” è la prima delle emozioni che ieri sera, per tramite del libretto di Francesco Morosi, ha dato l’allestimento del poema di Omero “Iliade” di Giuliano Peparini, che firma il terzo spettacolo al Teatro Greco di Siracusa, dopo “Odissea” e “Le quattro stagioni”. La seconda emozione è Giuseppe Sartori: appena sbarbatosi da Edipo, si tuffa anima, voce e corpo in Achille e va da sé risolve lo spettacolo. O meglio alza l’asticella dal musical all’epica tragica, facendo ricordare al pubblico (sold out per tutte e tre le repliche dal 4 al 6 luglio) che si sta nel tempio della classicità e con le derive pop si deve andar leggeri.
Peparini, comunque, ha maturato un passaggio importante, puntando con “Iliade” alla parola più che al corpo. L’impressione è che se non invertito, almeno abbia modificato la rotta della sua visione di opera totale. Danza, visual art e musica non sovrastano la parola, ma l’accompagnano nella riproposizione dei tableau vivant, la griffe del coreografo e regista.
Dodici quadri principali che ripercorrono i momenti cruciali dei ventiquattro libri del poema omerico (dodici libri è la misura del poema epico romano “Eneide”: latinizzazione della struttura, esigenze di tempistica o profezia?) che narra gli ultimi cinquanta giorni della guerra e assedio di Troia, iniziati quando Achille si ritira dalla battaglia, adirato con Agamennone che gli ha sottratto la schiava Briseide ovvero il gheras, il dono onorifico, e terminati con la restituzione del corpo del troiano Ettore al padre Priamo. Operazione riuscita anche se con un evidente squilibrio tra la parte introduttiva in cui sembra di stare a Thoiry per le coreografie di massa e lo sviluppo della trama attraverso i tableau dell’ira di Achille, dentro e fuori la gabbia in cui arriva in scena, del dialogo tra Ettore e Andromaca, dell’episodio di Patroclo (bravo Jacopo Sarotti), del duello finale, di Priamo nella tenda di Ettore per citare i principali.
L’opera. A prevaricare è l’urlo. Urlano tutti e forse anche troppo. Urla il coro dei soldati greci e troiani tanto da penalizzare gran parte del testo che non sempre arriva limpido all’ascolto. Urla quasi sempre l’aedo incomprensibilmente claudicante (Vinicio Marchioni, una buona prova senza guizzi), piange con eccesso di decibel Andromaca (non spicca Giulia Fiume), urla ovviamente Achille, ma a lui appartiene la menis (l’ira) e glielo perdoniamo anche perché gli appartiene Sartori.
Urla arrabbiatissimo Ettore: Gianluca Merolli convince fino a un certo punto penalizzato forse dall’esegesi pepariniana di un Ettore che la tradizione omerica vuole feroce ma non furibondo.L’unico a non urlare è Priamo con Danilo Nigrelli sempre netto nelle sue interpretazioni. Peparini ha costruito il suo spettacolo su una metafora azzeccata: la guerra è la vera prigione degli uomini e l’urlo di guerra è topos della letteratura bellica.
Metafora semplice ma di impatto grazie alla scenografia di Lorenzo Russo Rainaldi. Sedici gabbie e otto celle, la porta del carcere da cui avvia il movimento scenico e che dà sulla scena, pensata ora come il cortile dell’ora d’aria, ora come il parlatorio, ora come l’infermeria.
Su essa il ledwall proietta immagini di bombardamenti, i soliti interventi degli dei (Elena Polic Greco è la voce di Era), e infine le immagini delle guerre in corso (manca la bandiera della Palestina?). Filo spinato e barriere metalliche per citare i confini trumpiani e un paesaggio cromatico grigio polvere per sottolineare il carcere morale in cui l’umanità si è cacciata. Il rischio era Mare fuori e in effetti le felpe dei carcerati (rosse per i troiani e blu per i greci) e le coreografie di massa, da cui emerge tutta la gamma della violenza, del sopruso, dell’etica della disumanizzazione vissuta dentro le carceri, ricordano quelle atmosfere, segno che pagare il pegno al pop vuol dire non sottrarsi alla fiction: in fondo essa è frutto di un consolidato immaginario gomorriano. Però, tutto si stempera nella fragile suggestione grazie a inserti musicali che spaziano dal rock alla musica classica. Beppe Vessicchio ha pensato a uno spartito distraente, ossimorico, plurimo che accompagna le emozioni date dalla perfetta e agonale interpretazione di Giuseppe Sartori. E si stempera grazie anche al libretto.
La traduzione. Convinti come siamo che la messa in scena di un’opera, specialmente classica, trovi la ragion d’essere nella traduzione, l’operazione di Francesco Morosi, che firma il libretto ovvero fa un lavoro che ammicca alla drammaturgia, è il vero quid di questa “Iliade”. Morosi rinuncia e fa benissimo al celeberrimo incipit del poema omerico per far virare l’opera nell’eterno ‘900, nel secolo delle guerre, della filosofia e della scienza del Tempo. L’aedo dice “La memoria ci è stata data per suggerirci quanto insignificante sia il tempo” e invita a esercitare l’immaginazione, a fare di Troia un luogo edenico, sprizzante di natura non il carcere freddo e grigio alle spalle. Morosi ha così creato il passaggio del testimone dalla bellezza all’assurdo come si legge nel libro di Morley, che Cesare Pavese tradusse nel 1941, egli stesso amante dei miti e con il corpo dentro la guerra. Assist prezioso alla regia. La traduzione di Morosi è ad alto tasso di liricità, omerica nell’indulgere aspro sull’estetica del sangue e nell’afferrare il pathos dei passaggi con Patroclo (i quadri più belli insieme al duello al rallenty tra Ettore e Achille terminato in una citazione della iconografia vascolare greca) e con Priamo. Fino alla chiusa finale con la simbologia cristologica.
Peparini cita la pittura barocca e rinascimentale con il corpo martoriato di Ettore e ne fa con la citazione di Fenoglio la chiusura più universale ed etica possibile in questo tempo di bombe e vittime innocenti “Ci vede un sigillo d’eternità, come fosse un uomo ucciso due millenni fa”. Dal canto suo, Morosi mette in mezzo espressioni rare come “veste fragrante”, centellina lo stile formulare ma non vi rinuncia, si lascia traportare dalle similitudini e dalle metafore, perché aedo è lui stesso “Come gli sciami fittissimi di mosche/che vagano intorno alle stalle dei pastori/quando è primavera e il latte trabocca dai secchi/ così i Greci dai lunghi capelli si fermarono nella pianura/contro i Troiani, e avevano una sete folle di morte”. Capace, Morosi, di dare vita nella sua traduzione, che è interpretazione, la lettura più modernamente omerica del poema. Con il suo corredo di Ἄτη (intervento divino) e di timè, onore perduto per colpa della prima, con la necessità di rispondere al proprio destino e di conseguire il Kleòs a costo della morte certa (così Achille, così Ettore) per via di orghè e di menis (collera e ira), la civiltà della vergogna (Eric Dodds) appare come mondo nostalgico, dove la necessità della guerra, la più evidente espressione dell’umano (come non pensare ai versi di Salvatore Quasimodo di “Uomo del mio tempo”) si innestava in una società primordiale la cui barbarie era imprescindibile da valori quali l’onore oggi deserti e da un’etica della morte oggi invece dilagante. “Iliade” è il poema di Omero più affine alla tragedia. Per questo ne conserva due elementi: l’assolutezza e il pathos.
Cosa resta del pathos in questa “Iliade”? Poco. Un’opera ben ragionata, che sacrifica la coreografia o si ripete (la scena di Elena riprende la tempesta di “Odissea” e di “A tutto cuore” di Claudio Baglioni come anche la gabbia), che piace per le musiche e i costumi di Valentina Davoli e Silvia Oliviero, che dà merito ai performers, agli allievi della Peparini Academy e dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico bravi e professionali come sempre, che fa riflettere su un tema importante e che ci lascia una delizia tragica, la triangolazione sofoclea dei tre personaggi soli in scena. Le emozioni, sarà per un’altra volta. Con buona pace dell’ovazione finale, breve ma intensa.
Foto di Michele Pantano