
Pubblichiamo la prefazione dell’intellettuale della destra sociale al volume “Che cos’è il marxismo” di Carlo Costamagna, edito da Oaks
A Carlo Costamagna ho voluto molto bene e ho nei suoi confronti un grosso debito di riconoscenza. Stavamo a pochi chilometri di distanza in due comuni confinanti sull’Aurelia, questa grande strada della civiltà mediterranea che da Roma arriva sino in Spagna. Io a Loano, il paese della mia famiglia; lui a Pietra Ligure, il paese della moglie, in una villa posta sulla curva che sovrasta a monte l’abitato. Vi giungeva dal mare il rumore martellante del cantiere.
Verso la fine degli anni ’40, nei lunghi inverni di una Riviera che fuori stagione era ancora deliziosamente addormentata, ma anche un po’ noiosa, un paio di volte alla settimana andavo a passare il pomeriggio da lui, per chiacchierare. Eravamo, a titolo diverso, due “sfollati del dopoguerra”.
Mentre gli altri, finito il pericolo dei bombardamenti, ritornavano in città, era toccato a nostra volta di doverci rifugiare in paese per quel vasto anche se provvisorio processo di emarginazione che fu l’epurazione. Mio padre aveva dovuto lasciare la Marina. Erano tempi duri. Costamagna sognava di ritornare a Roma, alla sua cattedra d’università, e pensava di portarmi dietro come suo assistente. Ma la cattedra non gli fu più restituita.
Quali siano stati i temi delle nostre conversazioni è facile a intuirsi. Mi ero iscritto a Giurisprudenza, all’università di Genova, ma ci andavo di rado. A guidar le mie letture, spesso pescando i libri dalla sua biblioteca, era Carlo Costamagna. E più libri di politica e di storia, che non di diritto. Perché per lui, grande giurista, il diritto non era una scienza formale, separata e chiusa nella sua logica, ma una «scienza normativa […] che non può essere indifferente alla propria applicazione». Altrimenti detto: una scienza ordinatrice di norme, di comandi, che presuppone una identità e una vocazione nazionale da realizzare. Quindi, in senso superiore, una volontà politica e dei fini, una comunità di destino, da intendere e servire modellando le sue istituzioni sul genio e sui progetti della stirpe che l’esprime.

Tra i libri che mi fece leggere Le rivoluzioni d’Italia del Quinet, gli scritti di Giuseppe Ferrari ed Enrico Leone, L’Italia moderna di Gioacchino Volpe, La crisi del mondo moderno di Rene Guénon e Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola presentavano dei vistosi elementi di contraddizione. Ma era sua ferma, assoluta convinzione che tra la Tradizione e la rivoluzione nazionale e popolare iniziata dal Risorgimento all’insegna del Primato e della Terza Roma, poi proseguita con l’interventismo e il fascismo, non vi potesse essere sostanziale disaccordo. Tanto che gli sembrò sempre superfluo cercare di risolverne i punti di contrasto, non arrivando neppure a concepire una destra resa in qualche modo passiva e indifferente alla passione nazionale, all’idea della grandezza di Roma e dell’Italia.
Sua massima ambizione era stata quella di costruire e sistematizzare alla luce di un pensiero “nuovo” una dottrina del diritto in cui si riflettesse per intero l’originalità della rivoluzione fascista, cioè la forma italiana di quei movimenti nazionali e popolari che negli anni ’30 parevano destinati ad affermarsi come la realtà emergente e travolgente del XX secolo. Un errore di prospettiva su cui converrà poi soffermarsi. Ma anzitutto, giacché a questo può servire la mia testimonianza, deve rilevare che fra i tanti libri che Carlo Costamagna mi ha imprestato non vi fu mai la sua Storia e dottrina del fascismo (Utet, Torino 1938). Egli la considerava superata dalla «seconda edizione interamente rifatta» degli Elementi di diritto pubblico generale (Utet, Torino 1943), un testo che è rimasto praticamente sconosciuto, essendo stato a sua volta superato dalla crisi del regime prima di raggiungere i lettori.
Le due opere sono, per quanto attiene ai concetti essenziali e alle loro proiezioni, largamente coincidenti. Infatti, se in Storia e dottrina del fascismo Costamagna affermò la necessità «di ricostituire una “Statologia” о “Scienza dello Stato”, la quale costituisce il contenuto stesso della dottrina del Fascismo» (pag. 29) risolvendo quindi il fascismo nel concetto nuovo dello Stato, i suoi Elementi di diritto pubblico generale erano a loro volta così intrisi di dottrina del fascismo da risultarne assolutamente inseparabili e, conseguentemente, del tutto inutilizzabili come manuale di diritto pubblico al di fuori del quadro politico-istituzionale del regime fascista.
Durante il Ventennio fascista uscirono dalle facoltà giuridiche, di Scienze e di Economia, fior di manuali, scritti anche da chi nel fascismo credeva sinceramente e spesso ardentemente, ma la quasi totalità di queste opere con pochi tagli poté essere riciclata in democrazia. Vi furono persino corsi di economia corporativa a cui fu sufficiente, con il cambio di regime, cambiar titolo. Opere che la loro perfetta astrazione “scientifica” rendeva buone per tutte le stagioni. Su una certa cultura accademica la realtà storica passa come l’acqua fresca. A Costamagna riuscì invece, avendolo voluto con tutte le sue forze morali e intellettuali, di scrivere un trattato che, fuori dal regime per cui era stato costruito, è da buttare. Oppure da studiare, appunto, come reperto culturalmente ortodosso e rigoroso di un modello politico-istituzionale travolto dalla storia.
Che vi sia giunto soltanto alla vigilia della fine, passando per delle tappe importanti quali furono la stesura della Carta del Lavoro (della cui paternità si appropriò, firmandola come ministro delle Corporazioni, Giuseppe Bottai) e l’attività di ricerca, di approfondimento, di sprovincializzazione, di sintetizzazione condotta con la rivista “Lo Stato”, lo può ben comprendere chiunque rifletta su tempi e fasi di ogni processo storico. Prima viene la prassi, che è pensiero e azione, ma pensiero intuitivo, incontro-scontro tra struttura interiore, vocazione, e le continue sollecitazioni della realtà a cui la risposta da darsi deve avere una immediatezza che precede e crea la regola. Poi viene la sistemazione dottrinaria, che è la combinazione, quindi il compromesso, tra la cultura fondante, gli impulsi delle origini, e le risposte date con i loro risultati. Per arrivare a questa sintesi vent’anni non son molti. Anzi, erano pochi.
Sta di fatto che un’opera del genere è stata portata a maturazione. Che essa è poco nota anche fra gli studiosi più seri, i quali hanno riservato, per quanto riguarda i giuristi del fascismo, le loro attenzioni quasi esclusivamente ad Alfredo Rocco.
Tra i problemi interpretativi che si pongono c’è quello di individuare cosa nella attività dottrinale di Carlo Costamagna resti irrimediabilmente datato, perché legato agli istituti irripetibili del fascismo-regime e della sua combinazione con la monarchia, e quale parte della sua lezione, allora legata al fascismo-movimento, ma anche nutrita di motivi ispiratori nazionalpopolari о della Tradizione che lo precedettero e sono destinati a prolungarsi oltre la sconfitta, possa essere considerata ancora utilizzabile non solo in sede di ricerca storica. L’ancoraggio agli istituti del fascismo-regime è naturalmente prevalente nelle parti descrittive dei suoi testi. Ma nelle ragioni che ne dà, nei principi a cui si ispira, vi sono molti spunti concettuali da recuperare. A mio avviso, Costamagna è più interessante e soprattutto più originale come teorico del diritto e dello Stato a cui si deve una rottura negli schemi del pensiero giuspubblicistico moderno per aprirli ai nuovi concetti politici della rivoluzione nazionalpopolare (e non escluderei che qualche pretore d’assalto, ma anche più di un giudice di Corte Costituzionale, mutata la matrice ideologica, abbia tratto dalla sua lezione gli elementi di una interpretazione politico-evolutiva del diritto), che non viceversa. Lo ritengo, in altre parole, meno valido come giurista che ha sovracaricato la dottrina del fascismo di nuovi apporti alla discutibile statolatria mussoliniana.
Mi rendo ben conto che questa separazione non è molto facile, trattandosi di due aspetti speculari di uno stesso atteggiamento. E tuttavia penso si possa e debba cogliere, usando anche il senno del poi che a qualche cosa deve pur servire, la differenza pratica che esiste tra la naturale aspirazione che ogni movimento di pensiero e azione ha di permeare di sé lo Stato e le sue leggi, e la limitazione che invece deriva al movimento da un eccesso di immedesimazione nello Stato.
E se non c’è più Stato, se questo è ridotto a una parodia, a un protettorato? L’obiettivo in tal caso dovrà essere quello di ricostituirlo, insieme alla integrità della Nazione. Ma siccome l’iterazione può richiedere tempi molto lunghi, pare evidente che nell’attesa non possa avere più (se mai lo ha avuto) valore indicativo e imperativo la massima mussoliniana da cui Costamagna fece discendere la sua costruzione: «Tutto nello Stato e per lo Stato; nulla fuori dello Stato e tanto meno contro lo Stato».
Per me, che ho cominciato a pensare a queste cose solo verso la fine degli anni ’40, la concezione fascista dello Stato ha sempre presentato delle difficoltà, specie nella versione di Gentile, che ancora in Genesi e struttura della società idealisticamente sosteneva la preminenza e persino la precedenza dello Stato sulla Nazione: «Non è la nazionalità che crea lo Stato; ma lo Stato crea (suggella e fa essere) la nazione» (pag. 57). Certo: gli imperi sono pura creazione dello Stato, della volontà, della conquista, della capacita di radicarne lo spirito e gli effetti. Ma la Nazione può sussistere anche in secoli di attesa senza una struttura che ne esprima in termini adeguati volontà e coscienza. La Nazione vive anche nella dimenticanza di se stessa, anche nell’oppressione. E così per lei ci si può battere anche senza Stato e contro lo Stato.
Costamagna era anti-gentiliano e aveva tra i suoi punti di riferimento la scuola di Carl Schmitt, che come espressione della volontà politica privilegiava il movimento sullo Stato. Ma le radici storiche della statolatria fascista, di cui fu teorizzatore, si spiegano anche per reazione allo spappolamento del sistema partitico-parlamentare nel primo dopoguerra; così come per reazione alla dittatura si spiega l’errore commesso dai costituenti nel secondo dopoguerra con la restaurazione di un sistema che per i suoi difetti di struttura è difficilmente governabile e confonde la democrazia (sistema di potere a larga base) con l’impotenza istituzionalizzata.
Fu uno dei limiti del pensiero fascista, che si era sviluppato sul presupposto della irrimediabile decadenza delle democrazie borghesi e, se qualche volta era giunto a immaginare la propria sconfitta e a guardarvi oltre (lo fecero in punto di morte i francesi con Brasillach e Drieu La Rochelle), ipotizzò di dover cedere il campo solo a un altro totalitarismo, al comunismo. Venne insomma sottovalutata la capacità di ricupero e la forza delle democrazie proprio nell’area della civiltà bianca, con delle implicazioni che vanno ancora analizzate. Penso che si sia equivocato prolungando la concezione organica della società, che è essenziale, in una frenesia da caserma per l’iperorganizzazione, che ne è la negazione. Giacché proprio ciò che è organico deve funzionare in gran parte per automatismi. Non è la volontà che comanda al cuore di battere, alle cellule di strutturarsi e ricambiarsi. L’organizzazione è talvolta l’artificio della volontà che surroga ciò che è veramente organico, quando i suoi automatismi vengon meno, ma rischiando di spegnerli per sempre. Così come il nazionalismo è spesso solamente il surrogato di una insufficiente coscienza nazionale. Il rischio è di provocare crisi di rigetto, che peggiorano ancor più la situazione.
Dalla eclissi del senso nazionale Carlo Costamagna, negli anni in cui lo conobbi, era tormentato. Le sorti d’Italia erano il motivo assillante delle sue riflessioni. Egli, ripeto, concepiva il diritto come proiezione di una certa idea dell’Italia (forse dell’Europa: uno dei suoi progetti era di promuovere un congresso dei liguri, che rintracciasse gli elementi di comune tradizione, stirpe e civiltà dall’Italia nord-occidentale alla Provenza sino alla Catalogna) da preservare e da vivificare anche oltre la sconfitta. Di qui le sue critiche ai lavori della Costituente, che vedeva ricalcare modelli cosmopolitici, stranieri, indirizzati verso forme di disgregazione. Alcuni degli appunti che egli muoveva alla Costituzione del 1947 coincidevano, anche se certo non intenzionalmente, con le critiche sollevate dal partito d’azione, che fu l’unico gruppo politico dell’antifascismo a sostenere la formula istituzionale del presidenzialismo in luogo del pasticcio parlamentare-partitocratico che in trentacinque anni ha dato al Paese quaranta crisi di governo.
Certo, anche il suo presidenzialismo era piuttosto relativo. Costamagna infatti non si piegò mai a riconoscere nella democrazia la formula della potenza che ha vinto due guerre mondiali, preferendo attribuire quei successi a «una privilegiata situazione geopolitica» (pag. 287 di Che cosa è il marxismo, Utet, Torino 1949). Ma proprio nella conclusione del suo ultimo libro, ora citato, individuò nella degenerazione del parlamentarismo in “partitismo” il fattore ulteriore della crisi del sistema, che con «la inevitabile formazione di governi di compromesso, tra partiti discordi perfino sui concetti elementari dell’ordine civile, rende impossibile qualsiasi unità di indirizzo nella direzione delle pubbliche faccende» (ivi, pag. 288). Dimostrando quindi di saper ben distinguere tra una forma e l’altra di democrazia.
Fedele al principio che individua nelle istituzioni uno strumento della volontà nazionale, ancor più delle strutture giuridiche continuò peraltro a preoccuparsi soprattutto della loro finalizzazione. Che può riassumersi nelle ultime righe di Che cosa è il marxismo, quasi un testamento: «La lotta contro il capitalismo e contro il marxismo, che son poi i due aspetti dello spirito della speculazione finanziaria, caratteristico della così detta “era economica”, vuol essere condotta non in nome del “proletariato”, ma in nome della “patria unificata”.
[…] Sul principio nazionale si fonda un umanesimo nazionale, che solo merita di essere chiamato umanesimo “reale”, perché ci consente di piantar bene i piedi sulla terra, anche senza perdere di vista il cielo e di affrontare così preparati la lotta della vita».
Credo nella importanza pratica che per molti giovani può avere ancora oggi questa raccomandazione. Perché senza un solito ancoraggio alla realtà nazionalpopolare anche la ricerca elitistica della Tradizione rischia di isolarsi ed esaurirsi nelle suggestioni esotiche e in forme sterili e astratte di intellettualismo.