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Caso Iran: solo avere armi nucleari tutela dalle aggressioni di chi le ha

Come Israele e Usa hanno rotto l'arco sciita che dava profondità strategica alla sua difesa

by Nicolas Gauthier
1 Luglio 2025
in Corsivi
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L’attacco contro l’Iran su Al Jazeera

Attaccando l’Ucraina, il 22 febbraio 2022, Vladimir Putin forse ignorava quanto quell’avventura caotica, che doveva durare poche settimane, avrebbe sconvolto la geopolitica. Gli attacchi israeliani contro l’Iran scatenati dallo scorso 13 giugno, ne sono la conseguenza.

Concentrando i suoi sforzi su Kiev, Mosca lascia campo libero a iniziative, altrettanto azzardate, fra cui quella di Hamas del 7 ottobre 2023.  La risposta dello Stato ebraico è tanto prevedibile quanto spietata: Tel Aviv si scatena anche sullo Hezbollah libanese e sull’Iran. Spinti dal principio di opportunità, i resti dell’Isis in Siria ne approfittano per abbattere Bashar el-Assad in pochi giorni. Infatti Hezbollah non può più venirgli in aiuto e neppure il Cremlino, troppo occupato in Ucraina.

Risultato? L’arco sciita da Teheran a Beirut, via Damasco non esiste più, privando l’Iran di ogni profondità strategica. Per sistemare le cose, Donald Trump negozia direttamente con gli Huthi yemeniti, ultimo alleato dell’ayatollah Khamenei. Di quel principio di opportunità di cui ha approfittato l’Isis, Israele si appropria, attaccando l’Iran al momento giusto, perché l’inquilino di ritorno alla Casa Bianca non può negare quasi nulla a Benjamin Netanyahu.

Ne sono prova le rivelazioni di Adrien Jaulmes, corrispondente di Le Figaro a Washington, il 14 giugno: “I negoziati fra Usa e Iran, riaperti da Trump a sorpresa in aprile, erano parsi sventare i piani di Netanyahu contro il programma nucleare iraniano». Ma, sempre secondo la stessa fonte, “Trump e i suoi consiglieri avrebbero finto di opporsi a bombardamenti israeliani. L’obiettivo era convincere che l’attacco non era imminente ed assicurarsi che i militari e gli scienziati iraniani. inclusi nelle liste dei bersagli di Israele, non prendessero particolari precauzioni”.

L’inganno diplomatico

Per completare la copertura, alcuni collaboratori di Netanyahu avevano dichiarato ai giornalisti israeliani che Trump aveva tentato di ritardare un attacco israeliano con una telefonata, lunedì 10 giugno. Citando l’International Crisis Group, think tank statunitense, Adrien Jaulmes nota però: “Ciò non era conforme alla strategia del presidente americano. Netanyahu ha forzato la mano a Trump». Insomma, non si saprà mai chi tiene le redini della pariglia americano-israeliana, chi è il padrone e chi il cane.

Militarmente, l’operazione israeliana riesce. Ma, una decina d’anni fa, un diplomatico iraniano assicurava chi scrive: “Con i missili S-300 forniti dai russi, l’Iran è santuarizzato. Se 100 aerei israeliani attaccano, solo una ventina usciranno intatti”. È il 2010.

Un anno prima Gérard de Villiers, ne “La bataille des S-300″, romanzo della serie SAS estremamente ben documentato, scrive praticamente la stessa cosa. Solo, ecco, è il 2010: da allora la tecnologia progredisce e, in questo ambito, la superiorità israeliana è indiscutibile. Così i 200 caccia, partiti per bombardare l’antica Persia venerdì 13 giugno, sono tutti rientrati. Certo, la risposta iraniana non è esile, ma rimane incidentale, se paragonata ai danni subiti.

Colpire da lontano

Per certi aspetti, questa guerra non è comparabile agli altri conflitti che hanno insanguinato il vicino Oriente, poiché i belligeranti non hanno frontiera comune. Il vantaggio arride quindi più a chi padroneggia meglio il progresso, che consente di colpire da lontano, rispetto  a chi può schierare più soldati.

Il po’ di aviazione che rimane a Teheran è risibile. Nel campo della guerra del futuro, lo Stato ebraico ha segnato punti decisivi. L’operazione dei beep manomessi, preparata per 10 anni dal Mossad, ha segnato le menti in modo duraturo. All’epoca dei missili S-300 citati, non si tratta tuttavia di una priorità per l’ayatollah Khamenei, né per il presidente di allora, Mahmoud Ahmadinejad, intende «cancellare Israele dalla carta geografica», come si dice che avesse sostenuto in una conferenza pronunciata il 25 ottobre 2005.
C’è da supporre che tutto ciò abbia fatto parte di un manipolazione mediatica; come sembrava credere all’epoca il settimanale politico Le Point (non confondere con Point de Vue, NdT), certo non noto come furiosamente antisionista.

Così, il 26 aprile 2012, si può leggere a firma del giornalista Armin Arefi: «Il vento sta girando sull’Iran? Il rischio di attacchi israeliani – e addirittura di una guerra regionale –, presentato come inevitabile ancora poche settimane fa, sembra inesorabilmente allontanarsi. La svolta risale a quando due responsabili israeliani – il ministro della difesa Ehud Barak e il capo di stato maggiore Benny Gantz – annunciano che la Repubblica islamica non ha deciso di dotarsi della bomba atomica. Un’informazione in realtà nota da anni ai vari servizi d’informazione americani, ma anche israeliani».

Diamine. Ciò significa che, se gli accordi irano-americani sul nucleare iraniano avessero seguito il loro corso, forse quella Repubblica islamica non cercherebbe, oggi, di dotarsi veramente dell’arma fatale in questione… D’altronde, ciò sarebbe stato così grave per la pace nel mondo? Dopotutto, nel secolo sorso, anche lo Stato ebraico si è dato l’arma nucleare, illegalmente e in segreto. Che l’Iran rimediasse a quello squilibrio forse non sarebbe stato un pericolo neanche per la regione.
Jacques Chirac dichira a Le Monde il 29 gennaio 2007: «Direi che non sia particolarmente pericoloso […] Ciò vuol dire che, se l’Iran prosegue sulla sua strada e padroneggia completamente la tecnica elettronucleare, il pericolo non è nella bomba che avrà e che non gli servirà a niente. Dove spedirà quella bomba? Su Israele? Non avrà fatto 200 m. nell’atmosfera e Teheran sarà cancellata”.

Cosa che Tel Aviv non doveva temere, giacché Le Point rendeva ufficiale, il 26 aprile 2012, quel che si scriveva in redazioni meno in vista: le dichiarazioni di Mahmoud Ahmadinejad erano state deformate da un errore della traduzione in inglese, non si sa se volontario. Da ciò la tardiva messa a punto del settimanale: «In un’intervista a Al Jazeera, ripresa dal New York Times, Dan Meridor, ministro israeliano dei servizi d’informazione e dell’energia atomica, ha ammesso che il presidente iraniano non aveva mai detto: “Israele deve essere cancellato dalla carta geografica”. E ha aggiunto al contempo: “Mahmoud Ahmadinejad e l’ayatollah Khamenei hanno ripetuto a più riprese che Israele era una creatura artificiale e non sarebbe sopravvissuta”.

Nel registro delle «creature artificiali» il presidente iraniano includeva peraltro l’Urss, di cui diceva: “Chi pensava che un giorno avremmo potuto essere testimoni del suo crollo?”. E Le Point ricordava: “Eppure, è quella prima citazione errata che è stata ripresa di continuo dai media di tutto il mondo, attizzando ulteriormente i sospetti sul programma nucleare iraniano”.
L’attuale retorica escatologica di Netanyahu si baserebbe quindi su chiacchiere, così come i sempiterni appelli a un “diritto internazionale» tanto fumoso quanto paradossalmente fra i più solidi sin dal tempo in cui tante nazioni ci si sono regolarmente sedute sopra. E il seguito degli eventi? Che dire di un’eventuale soluzione politica? Il primo ministro israeliano sembra non averne né a Teheran né a Gaza. Certo, può contare sull’apatia degli Stati sunniti vicini, non scontenti di vedere il loro concorrente sciita nei guai.
La Russia, malgrado le proteste, dovrebbe limitarsi a un atteggiamento verbale, anche se la Cina potrebbe eventualmente alzare il tono, essendo in gran parte dipendente dal petrolio importato dall’Iran.

Regime change

E poi c’è il sogno sempre meno inconfessato di rovesciare dall’interno il regime dei mullah. Su questo punto c’è distanza fra il dire e il fare, come ha sottolineato Delphine Minoui, giornalista franco-iraniana e specialista indiscussa del suo paese natale, su Le Figaro del 16 giugno: «La società è divisa in tre gruppi. Il primo, minoritario, applaude i bombardamenti israeliani. Il secondo resta fedele al regime, per ragioni ideologiche o di interesse economico. Il terzo, maggioritario, non sostiene né la Repubblica islamica, né i bombardamenti israeliani. Si rallegra della morte dei comandanti corrotti dei guardiani della rivoluzione, ma respinge ogni forma di aggressione contro il territorio e ogni tentativo di imporre un sistema politico venuto dall’esterno». Sembra mancare qualcosa per sovvertire il regime dall’interno…

Dal canto suo Régis Le Sommer, Le Journal du dimanche, scrive in fondo la stessa cosa: “L’era del carpet-bombing è finita, ma Netanyahu ci crede ancora per soddisfare una parte della sua opinione pubblica”. E soprattutto giocare con l’orologio, per non comparire dinanzi alla commissione d’inchiesta, per le negligenze dimostrate di fronte al massacro commesso da una Hamas che è riuscita a spazzar via Tsahal, esercito pur ritenuto onnipotente, il 7 ottobre 2023.

Avere l’egemonia tecnologica sul breve periodo è una cosa. Avere una visione politica sui tempi lunghi è un’altra. Prima o poi, Netanyahu potrebbe impararlo, anche se a sue spese. (da Elements)

@barbadilloit

 

Nicolas Gauthier

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Tags: IranisraeleNicolas Gauthiernucleareusa

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