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Perché rileggere “Il lupo della steppa” di Hermann Hesse

Il protagonista si chiama Harry Haller, un uomo sui cinquant’anni che affitta una mansarda dove porta le sue cose e una cassa di libri

by Gianfranco Andorno
29 Giugno 2025
in Cultura
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Hermann Hesse

“Hai ragione tu, lupo della steppa, mille volte ragione, eppure devi perire.”

 

Hermann Hesse pubblica il romanzo Il lupo della steppa, Der Steppenwolf, nel 1927 a Berlino, in Italia uscirà nel 1946. Alla fine del libro l’autore aggiunge una breve nota, discute con i lettori. Naturalmente l’incontro è illusorio: i fruitori non sono presenti nell’assise. Hesse avverte che sovente le opere vengono fraintese e purtroppo così è con questa. C’è stata una identificazione e i lupi sono moltitudine, giusto, vagano nella steppa ma… ecco la sua imperiosa raccomandazione. Questa storia è malattia, crisi, ma non un cammino verso la morte, non tramonto bensì guarigione.

Il protagonista si chiama Harry Haller, un uomo sui cinquant’anni che affitta una mansarda dove porta le sue cose e una cassa di libri. Il libro riporta il suo diario, le sue memorie ed entra in lui. Persino nella sua psiche. 

La persona Harry contiene due entità: l’uomo, con ideali ambizioni, e il lupo, introverso barbaro. La steppa rappresenta la natura selvaggia dell’individuo, la profondità oscura dell’anima dove si svolge il romanzo: un viaggio attraverso l’inferno interiore, come asserisce Hesse.  

Inevitabile l’apparentamento con la steppa di Cechov, pubblicata una trentina di anni prima. Qui il protagonista è un giovane, Jegòruska. La steppa di Cechov è un luogo fisico ma ispira egualmente isolamento, solitudine. Racchiude l’invito a confrontarsi con i pensieri propri. La differenza maggiore è che Haller viaggia in lui mentre Jegoruska viaggia negli altri.  La dualità del giovane è il passaggio dall’innocenza alla conoscenza, quella dell’uomo maturo è tra lo spirito e l’istinto. 

Ecco l’opera di Hesse. Un tizio che si definisce curatore inforca gli occhiali e affronta l’opuscolo “Il lupo della steppa” sottotitolo: “Soltanto per pazzi”. Harry Haller descrive la sua crisi esistenziale. Estraniato dalla società borghese, che critica per il suo arido edonismo, afferma di appartenere alla categoria dei suicida. Disserta quindi sul ritorno alla Madre, a Dio, al Tutto. Cita la frase del Faust: “Due anime, ahimè, son nel mio petto!” per suffragare il suo essere in due: uomo e lupo. Asserzione che è resa traballante, messa in dubbio dalla frase: “come corpo l’uomo è uno, come anima mai.” L’anima è “un palazzo con molte stanze” o “un teatro con infinite maschere.” Haller è in errore perché insiste con la dualità.

Nelle righe traspare e luccica la disperazione: l’uomo vero è prigioniero dell’uomo apparente, il borghese. Il divenire è un sudicio fiume che porta sempre avanti nella colpa. La corrente è infida, maligna. Non ci sono strade che portano all’indietro, alla non colpevolezza. Il fascicolo termina con la lettura e il commiato ma un protagonista procede ed agisce. 

Il testo è come un frutto innaturale, lo sbucci e trovi un’altra scorza. Gioca sulla voglia di arrivare alla polpa. C’è la prefazione del curatore, le memorie di Harry Haller,  la dissertazione,  la numerazione pagine in caratteri romani e poi normali, le porte con le iscrizioni maiuscole, la nota dell’autore… Come una battuta di tamburo scaturisce l’esclamazione: “Joyce, Joyce!” Quasi un’invocazione, l’innominato verrà e ne parleremo. Adesso è impegnato a tacchinare la Molly Bloom a Dublino. Lui è cattolico e la voleva Penelope invece lei è adultera!

Nel 1924 Hermann Hesse sposa la cantante Ruth Wenger. Dopo un breve viaggio decidono di separarsi definitivamente ed Hesse si mette a scrivere il libro del lupo. 

Per Harry la religione, la patria, la famiglia non sono più addobbi suoi. La scienza, le arti le trascura con nausea e prova piacere per questa ripulsa. Il mattino sbadiglia, il mattino è plumbeo e maledetto, Harry se ne va a letto.  Le atmosfere sono eguali al fumo della canzone d’autunno di Nietzsche. È ora di finirla, ripete, e allude alla vita, ma rimanda. Partecipa ad un funerale, per immedesimarsi, vivere il suo e accade che l’Harry si scinda nei due Harry che si insultano, si sputano in faccia. 

La cena nella casa di un professore con commenti su Goethe finisce male. “Va’ a casa, Harry, e tagliati la gola!” quasi un ordine. Si ferma all’Aquila Nera, una balera, conosce una bella ragazza. Un lungo dialogo ma il nome al secondo incontro: Hermine. Con sorpresa, sembra il femminile di Hermann!  Nell’intrigo amoroso un Harry vede il lupo che si dibatte come una mosca nella ragnatela. Chi dei due offre le orchidee? Hermine lo rieduca alla vita, lo costringe ad apprezzare quegli eventi che odiava. Ecco il ballo, il jazz e soprattutto la compagnia di persone piacevoli. 

La premessa a quella specie di contratto è spiacevole. Hermine impartirà ordini ai quali Harry dovrà obbedire ma… “Quando sarai innamorato di me ti darò l’ultimo ordine, mi ucciderai.” C’è Pablo, un sassofonista che non vuol parlare di musica e usa una strana polverina. Suona lo shimmi insinuante. Il vecchio Harry sembra morto, povero lupo, e il nuovo trova nel letto Maria, con la quale ha ballato. È un fiore donato da Hermine.  

C’è il gran ballo mascherato ma il lupo riaffiora a rovinare la festa. Il buon Harry non è ancora guarito non sa ridere.  Si salva con l’invito al Teatro Magico, Erminia è nell’inferno e lo chiama. “Sono ammessi soltanto pazzi. Si paga il cervello.” E c’è Mozart con la proposta della risata immortale, è la salvezza dal dolore e dall’assurdità dell’esistenza.  L’uscita di sicurezza dalla vita, aggiungo. 

“Yearling” il foxtrott che conquistava il mondo e Pablo arrangiava.   Harry ride e il lupo è in convulsioni. Pablo lo incoraggia: “Hai ammazzato il lupo della steppa!” C’è una sparatoria con dei morti: siamo finiti in un altro libro? Caro Hermann cosa scrivi? Uno spiega: “Io non sono nessuno. Qui non abbiamo nome, non siamo persone.” 

In aiuto ci sono i cartelli: Modo meraviglioso di addomesticare il lupo della steppa, Come si uccide un amore. Harry guarda nello specchio e vede Harry, “Harry che fai costì?” Arriva Mozart che lo avvisa: “Siamo nell’ultimo atto del Don Giovanni, Leporello è in ginocchio.” Harry con una pedata riduce in cocci l’Harry dello specchio. Finalmente l’iscrizione: Harry giustiziato, accompagnata da un coro di risate. È accusato di aver pugnalato il teatro magico con la realtà. 

C’è la resa dei conti con le promesse finali di Harry: giocherà meglio con le figurine, imparerà a ridere. Mozart lo aspetta. 

Herman Hesse e James Joyce non si sono mai incontrati, ognuno è stato  chiuso nella sua cellula di creazione e protetto dal suo circolo di fans. Ma lo scambio di messaggi, con codici comprensibili solo a loro, un ponte gettato da pagina a pagina nei libri diversi esiste. Non ci sono interazioni ma sono entrambi dipendenti della psicologia analitica di Jung. Suggestionati dalle filosofie orientali: buddismo, induismo.

Hermann e James Indagano l’animo umano e attaccano la modernità. Denunciano il suo materialismo, l’oppressione dell’individuo, la paralisi spirituale. Eseguono autopsie anche impietose e crudeli del reale e dell’irreale. Hesse ghiaccia con il suo lirismo che indossa la normalità, Joyce è lo stregone delle epifanie, illumina lo status di ognuno. Joyce spacca le parole. I loro protagonisti sono viaggiatori indomiti, esploratori delle tenebre dell’inconscio, dell’intrinseco. Danno la caccia al lupo e all’uomo comune, ne espongono i resti come trofei.    Hermann Hesse e James Joyce sono considerati giustamente due “giganti” della letteratura del XX secolo.

 

Gianfranco Andorno

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Tags: gianfranco andornohermann hesseil lupo della steppa

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