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Segnalibro. La nobiltà della sconfitta nella cultura nipponica fra morte ed eternità

Medhelan pubblica il volume di Ivan Morris sull'onore e l'azione dei cavalieri e samurai che combattevano nel nome dell'"eroismo"

by Manlio Triggiani
29 Giugno 2025
in Scritti
0
Ivan Morris, La nobiltà della sconfitta, Medhelan

Lo scrittore inglese Ivan Morris (1925-1976) dedicò i suoi studi alla tradizione eroica giapponese. Britannico, laureato ad Harvard in lingua e letteratura giapponese, fu scrittore e studioso della cultura nipponica. Date le sue conoscenze, fu inviato a Hiroshima il 6 agosto 1945, come interprete, dopo l’olocausto compiuto dall’aeronautica Usa.

Morris amico di Mishima

Conobbe e divenne amico di Mishima Yukio (1925 – 1970) che lo invogliò a studiare la tradizione eroica e ad apprezzare lo stile di comportamento dei giapponesi tradizionali. Risaltava in questi studi la differenza fra Occidente e Oriente: per la cultura occidentale il fallimento, il mancato compimento di un progetto, la sconfitta in una contesa, sono una vergogna e il suicidio è contrario alla religione cristiana e al comune sentire. Per la cultura buddhista e per l’etica cavalleresca dei samurai, invece, la sconfitta e il suicidio sono un’affermazione di sé, un gesto che sarà ricordato dalle generazioni successive creando intorno allo sconfitto l’aura di eroe. Probabilmente il vincitore non rimarrà nella memoria collettiva come il perdente. Ivan Morris, in un libro utile per comprendere la mentalità e la visione del mondo degli estremo-orientali, La nobiltà della sconfitta, illustra l’aspirazione all’onore prendendo in esame dieci casi di samurai e cavalieri dal 72 d.C. In poi con il principe Yamato Takeru, tipica figura dell’eroe nipponico, e poi, via via, fino ai samurai più recenti come i kamikaze. E’ descritta l’etica del samurai, la psicologia nipponica e soprattutto quella degli eroi giapponesi, e si conosce un millennio di storia nipponica. Morris dedicò il libro al suo amico Mishima e apprese ad ammirare gli sconfitti. Viene da chiedersi: da dove derivava questo fascino per personaggi che perdono la vita in modo violento e senza tentennamenti, come se la morte fosse qualcosa di ricercato, magari anche in giovane età?

Le basi culturali nipponiche

Il curatore, Marcello Ghilardi, analizza, nell’introduzione, le basi culturali e religiose della formazione nipponica. Pone in evidenza il dato secondo il quale la componente religiosa e culturale che ha plasmato il Giappone si configura in tre correnti principali: lo Shinto (si può tradurre “via degli dei”, unica di origine nipponica, codificata retrospettivamente fra il XVII e XVIII secolo, ma il termine era in uso già nel XIV secolo), il Confucianesimo e il Buddhismo. Lo Shinto è stato un insieme coerente di pratiche che nel corso del tempo ha mantenuto intatti i riferimenti concettuali. La virtù shintoista della purezza si collega a quella confuciana della sincerità, dell’onestà, dell’affidabilità. Perché per la mentalità nipponica è basilare la fedeltà alla parola data, l’aderenza all’impegno assunto. Ecco da dove deriva la fedeltà verso chi si è giurato fedeltà. E la morte non è considerata inutile, anzi viene coniugata come perfetta coincidenza fra ciò che si è e l’immagine alla quale si vuole aderire. La meditazione sulla “impermanenza” è una costante dell’insegnamento buddhista che deriva da Siddharta il Buddha, vissuto in India fra il VI e il V secolo a. C. secondo il quale “Una persona ordinaria, o monaci, vede così: ‘Questo è il Sé, questo è il mondo; dopo la morte io sarò permanente, imperituro, eterno, non soggetto a cambiamento; durerò per l’eternità’”.

La morte e l’eternità

E’ un insegnamento che porta all’abitudine dell’impermanenza, attraverso il distacco dal Sé, tenendo conto che l’impermanenza è propria di tutte le realtà – secondo l’insegnamento buddhista – fisiche e metafisiche, visibili e invisibili. E’ evidente che per civiltà come quella occidentale, questi discorsi non sembrano convincenti: l’homo oeconomicus preferisce il benessere materiale, l’affermazione professionale, l’accumulo di soldi, la vita agiata. Così Ivan Morris, in questo libro pieno di insegnamenti, chiarisce il dato degli uomini di valore che affrontano il nemico uscendo perdenti dalla contesa. Secondo l’opinione occidentale chi ha perso è da disprezzare, è uno sconfitto che non può essere ammirato. L’insegnamento nipponico, invece, spiega che è meglio uscire sconfitti da una prova imparando, piuttosto che vincere senza apprendere nulla. Un adagio nipponico recita: “Cadere sette volte, rialzarsi otto”. La prova con se stessi è prioritaria. Ivan Morris in questo libro descrive varie biografie di uomini passati alla storia come perdenti ma – nello stesso tempo – uomini d’onore e di valore che hanno attraversato vari gradi della sconfitta. E’ tuttavia grande il livello di dignità che può affiorare dal comportamento di questi semidei, guerrieri, samurai, nobili e condottieri. Morris chiarisce bene come una vita finita nella sconfitta e nella morte, possa lasciare il ricordo della forza, dell’onore, del valore e del carattere.

Ivan Morris, La nobiltà della sconfitta, Medhelan ed., pagg. 500, euro 28,00 (trad. Francesca Wagner, prefazione di Marcello Ghilardi). Ordini: www.edizionimedhelan.it

Manlio Triggiani

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Tags: Ivan MorrisLa nobiltà della sconfittamanlio triggianiMedhelan ed.

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