
Ci sono opere che si leggono con l’intelletto, altre con la memoria; Tertium datur, invece, si legge con ciò che i Greci chiamavano thymós, il cuore-spirito, centro ardente in cui conoscenza e desiderio coincidono. In questo libro, Giovanni Sessa non scrive: invoca. Non dimostra: rivela. Non analizza: evoca. Non espone, ma dispone, secondo un ordine invisibile e vibrante che potremmo chiamare cosmologico o, più precisamente, epifanico.
Il titolo è un atto di insubordinazione ontologica: si proclama, contro la tradizione razionalistica moderna, la possibilità di un “terzo” che non si oppone al dualismo logico (essere/non-essere, soggetto/oggetto, spirito/materia), ma lo trasfigura. Si tratta di un tertium reale, non sintesi né compromesso, ma riemersione dell’originario, di ciò che precede ogni frattura e dicotomia.
La cifra ermeneutica del pensiero sessiano è ciò che potremmo definire archeofuturista: egli si volge all’origine non per regressione, ma per anàmnesi attiva, come nel Fedro platonico, dove il ricordo è teurgia, ritorno operante all’idea, non sterile nostalgia. L’originario, in Sessa, è luogo-metafora da cui il pensiero trae alimento come radice vivente, non come archivio. Scrive infatti:
“Il pensiero dell’originario è atto simbolico per eccellenza: dischiude una verticalità che attraversa le epoche senza appartenere ad alcuna, fonda ciò che è senza mai essere fondato” (p. 52).
Il lessico dell’autore è fin dalle prime pagine orientato verso un logos non calculateur, ma anagogico: il pensiero, per farsi atto metafisico, non deve più spiegare, ma rendere trasparente; non costruire, ma disvelare. Si potrebbe dire, con Simone Weil, che Sessa insegna a “guardare l’essere come si guarda un’epifania”. La posta in gioco non è l’elaborazione di un’epistemologia alternativa, ma la rigenerazione di uno sguardo aurorale, capace di cogliere il mondo non come dato, ma come donazione.
Tertium datur è anche un atto di resistenza sacra contro la modernità, il cui peccato radicale non è stato l’ateismo, ma la profanazione dell’ontologia, la riduzione dell’essere a oggetto manipolabile. La modernità ha disattivato i simboli, dissacrato il tempo, desacralizzato lo spazio. E ciò, non per errore, ma per perdita del terzo: quella zona mediana, quel metaxý platonico, luogo dell’incontro fra umano e divino nei linguaggi della mistica.
Sessa attraversa con sicurezza i crocevia della filosofia europea – da Vico a Gentile, da Evola a Heidegger, da Böhme a Schelling – ma non cerca autorità: cerca risonanze. Non costruisce un sistema, ma intesse un campo simbolico. Il sapere è orientato al ritorno al simbolo, parola che rimanda, apre, connette. Come scrive:
“Nel simbolo non c’è rappresentazione, ma epifania. Non vi si allude a un significato: vi si partecipa a una presenza” (p. 113).
Il tertium che si dà non è contenuto, ma regime di presenza, modalità di accesso all’essere che precede ogni tematizzazione. Il pensiero dell’originario è metafisico solo nella misura in cui è anche ontofanesico: pensiero che fa vedere, che restituisce splendore alla realtà. Un pensiero euristico della luce.
Straordinaria è, ad esempio, la riflessione sulla persona come nodo simbolico, unità aperta: contro ogni ontologia dell’individuo chiuso, Sessa propone una concezione dinamica, radicata nell’ontologia relazionale della tradizione sapienziale – da Eraclito a Weil, da Cusano a Zambrano. L’io non è monade, ma trasparenza originaria all’Altro, punto di passaggio del logos cosmico. L’individualità è il luogo in cui il mondo pensa sé stesso.
“La persona è teofania temporale dell’infinito, è il ‘luogo’ in cui l’Essere si riflette come nel frammento l’intero” (p. 156).
La postura metafisica di Sessa è anagogica: non procede per deduzione o induzione, ma per elevazione, per ritorno. Come nel neoplatonismo, la verità si coglie nella prossimità all’archetipo. La metafisica diventa liturgia del pensiero, cerimonia del logos che restituisce al reale densità ontologica e alla parola vocazione ieratica.
Tertium datur scava nel sottosuolo del pensiero europeo alla ricerca di ciò che è stato rimosso: la dimensione cultuale del pensare, la sua origine ieratica, la sua funzione cosmica. È un’opera che non si esaurisce nella lettura, ma inizia chi legge ad un altro modo di essere. Più ascesi che discorso, più ritmo che forma, più fuoco che argilla.
È raro che la filosofia contemporanea – spesso ridotta a sociologia dello spirito o critica senza fondamento – trovi voce in un’opera tanto ardita quanto luminosa. In tempi di smarrimento assiale, Tertium datur è una stele nella notte, un invito a riscoprire, nel cuore della modernità crepuscolare, il luogo sorgivo in cui pensiero ed essere non sono ancora disgiunti.
“Pensare l’originario è ascoltare ciò che in noi è più antico di noi stessi. È riconoscere che, prima ancora di parlare, siamo stati detti” (p. 211).
Dopo aver dischiuso il pensiero dell’originario come ritorno al sacro e disvelamento dell’ontologia simbolica, la sezione conclusiva del volume si concentra su un piano ancor più decisivo: il recupero del logos nella sua funzione civile, poetica, formativa. Il libro si rivela così non solo saggio di filosofia speculativa, ma proposta per un nuovo ethos, fondato sulla memoria dell’invisibile.
Tra i nodi principali: l’opposizione tra segno e simbolo. Il primo, dominante oggi, risponde al bisogno tecnico di classificare e ridurre. Il simbolo, invece, è partecipazione: methexis, non indicazione. Dove il segno isola, il simbolo connette; dove il primo rinvia ad un codice, il secondo apre un cosmo. In questa dialettica si gioca la possibilità di riscatto dello spirito occidentale. La logica dell’originario è poietica: crea evocando. Non costruisce il mondo: lo invoca. E proprio in ciò risiede la sua valenza politica, nel senso greco: restituire all’uomo la possibilità di abitare il kosmos.
Eppure, il simbolo non ha solo portata gnoseologica o metafisica. In Sessa, esso ha valore formativo. Questo libro è, in filigrana, una paideia: forma dell’educazione dell’anima. L’ontologia simbolica non si trasmette, si vive. In tale chiave, Tertium datur è risposta alla desertificazione educativa del nostro tempo, al nichilismo pedagogico delle post-umanità. Non a caso Sessa si richiama a Vico, Gentile, Evola, Zambrano: pensatori per cui la filosofia è visione, non tecnica. Il pensiero dell’originario è, per l’autore, l’unica via per restaurare un’antropologia alta. Solo chi ha abitato il simbolo può educare. Solo chi ha toccato l’originario può chiamare l’altro all’altezza.
Qui affiora un’intuizione straordinaria: il pensiero originario come fondamento di una lex aeterna, non scritta, impressa nel cosmo. Sessa risveglia, a modo suo, l’idea platonica di un ordine ontologico iscritto nel reale, passando però per analogia e poesia. Un Platone tardo, quasi orfico. Non una dottrina, ma una forma di vita. Il logos simbolico non serve a spiegare il mondo, ma a rileggerlo come tessuto di presenze, come dramma teofanico. Il pensiero diventa, con Plotino, “ritorno alla patria”: non fuga dal mondo, ma riconquista del suo volto invisibile. Là dove tutto è fluido e postmoderno, solo il pensiero dell’originario può fondare la fedeltà. Non al passato, ma all’Eterno.
Tertium datur è, in definitiva, libro nobilmente aristocratico. Non socialmente, ma spiritualmente. Presuppone un’anima verticale, un gusto per l’invisibile. È un libro per chi, stanco delle ceneri dell’immanenza, cerca ancora le vie dell’alto. Sessa, come i grandi pensatori della Tradizione vivente, non ci offre un sistema, ma un invito. E come ogni invito iniziatico, si rivolge a chi è disposto a perdersi per ritrovarsi. In un’epoca in cui si predica il nulla con voce di massa, questo libro, discreto e vibrante, è una voce che chiama. Non alla reazione, ma alla trasfigurazione. Non al rifugio, ma al ritorno alla Sorgente.
Per chi ha orecchie, non un saggio: ma un oracolo silenzioso.
Giovanni Sessa, Tertium datur. Filosofie dell’originario, InSchibboleth, Roma 2025, pp. 382, euro 28,00.
Può essere che non abbia capito ma con tutto il rispetto per il lavoro di Sessa, mi viene difficile da capire che cosa mai sia questo Originario, così indeterminato. ” L’ Invisibile” che cosa è? Come ci si può rapportare per sfuggire all’ immanenza ad un principio generico? C’è bisogno di trascendenza? Allora la si precisi perchè altrimenti si rimane nel campo della cosiddetta metafisica, ormai abusata. Io l’ intendo nel senso cristiano, è Cristo che è Persona, che è relazione con il credente.