“There is pleasure in the pathless woods,
there is rapture in the lonely shore,
there is society where none intrudes,
by the deep sea, and music in its roar;
I love not Man the less, but Nature more”.

“C’è un’estasi sulla riva desolata…”, scriveva nel 1812 Lord Byron – uno che di mari e di estasi se ne intendeva -, nel “Childe Harold’s Pilgrimage”, vergando quella che sarebbe stata la fascetta editoriale perfetta per “La Riva delle Sirti” di Julien Gracq, destinato a uscire solo 140 anni dopo, nel 1951 (in Italia nel 1952 e poi di nuovo nel 2017, meritoriamente, per i tipi de L’orma), e a vincere il prestigioso premio Goncourt, che però il suo Autore, contrario per principio, come molti surrealisti, alla pratica dell’assegnazione dei premi letterari, rifiutò platealmente.
Già solo questo gesto anticonvenzionale e anticonformista di Gracq sarebbe forse bastato a suscitare in Dominique Venner – uno che di gesti plateali se ne intendeva – una certa simpatia, nonostante le posizioni assai distanti in campo ideologico, e però le insospettabili analogie tra i due non si fermano qui: “La riva delle Sirti” racconta di una civiltà in declino, irrimediabilmente invecchiata, in preda all’immobilismo e in mano a pochi uomini ormai decrepiti, civiltà che rifugge, ma al contempo ambisce, a un brivido che la riscuota dal sonno, quel brivido che solo la guerra, “unica igiene del mondo”, può dare. E, a scanso di equivoci, la guerra è centrale anche in “Una finestra sul bosco”, altro capolavoro del comunista-esteta Gracq, sempre scisso tra il suo impegno politico e il “richiamo… della foresta”, appunto, quello dello stile, del suo stile un po’ proustiano, lontano anni luce dal realismo socialista. “La trama è una roba secondaria. È lo stile che conta”, sentenziava Céline… e infatti il romanzo filosofico di Gracq, estatico ed estetico, più che sulla trama in sè punta sull’atmosfera metafisica e rarefatta, punteggiata di “fiammeggianti verità intellettive”.
L’elogio di Dominique Venner
Non stupisce, dunque, che Venner abbia potuto leggere fra le righe poetiche e oniriche che il suo quasi-“fratello separato” ha dedicato alla decadenza di Orsenna una profezia (risalente all’immediato secondo dopoguerra, e per giunta fatta da uno che si trovava dalla parte dei vincitori!) sul destino deliquescente dell’Europa, così come la più ovvia delle letture possibili delle “Scogliere di Marmo” jüngeriane è stata ed è quella allegorica del nazional-socialismo.
Le sintonie con Buzzati e le “scogliere di marmo” jungeriane

E l’accenno alle “Scogliere di Marmo” non è affatto campato in aria: insieme al “Deserto dei Tartari” di Buzzati, risalenti rispettivamente al 1939 e al 1940, sembra costituire una sorta di padre nobile dell’opera di Gracq, o meglio, all’opposto, sembra che quest’ultima ne conservi una certa qual impalpabile aria di famiglia. Senza dire del bosco e della foresta, termini che ricorrono quasi ossessivamente nell’autore francese, e non possono non far pensare al Waldganger e all’Oberförster di Jünger.
Non solo Jünger, però: se l’attesa inquieta di Aldo richiama quella di Giovanni Drogo, e non solo per i nomi italiani dei protagonisti del romanzo, la presenza incombente ma indistinta del nemico sull’altra riva, quella del Farghestan, che, non appena si fa un filo più concreta, riesce a trasmettere un’(ultima?) scossa di vita al corpaccione di Leviatano ormai in stato di pre-morte di Orsenna, non può non suscitare una riflessione tanto sulla dialettica schmittiana amico/nemico, con la sua miracolosa capacità rinvigorente e di aggregazione, quanto sul lungo cammino della metafora politica dello Stato come corpo vivente, dal Medioevo a Machiavelli e Hobbes (ricostruito in un bel saggio di Gianluca Briguglia edito da Mondadori), metafora che nel fulminante confronto intergenerazionale che chiude il romanzo ricorre ripetutamente.
La figura di Vanessa

Più in generale, quindi, le attese (tante) e le azioni (relativamente poche) dei protagonisti mirano pressoché tutte a ricercare una reciprocità, più o meno dichiarata; esigenza umana, troppo umana, che Vanessa, la sfuggente nobildonna amata dal protagonista, nel suo palazzo umido e salmastro da figlia di Dogi – quasi una Renata hemingwayana, d’altronde sempre di rive e di fiumi si tratta, – esprime così: “Ci sono occhi qui che si posano su di te, Aldo, ma, capisci, mai niente di più: non c’è dietro uno sguardo. E io, avevo bisogno di questo sguardo. Oh sì, guardare; esser guardata. Ma ad occhi spalancati, ma per davvero: essere in presenza…”. Pressante esigenza, anche questa, vieppiù profetica a 70 anni dalla stesura del romanzo, in una società postmoderna che tende a isolare gli individui e a frapporre fra loro barriere e schermi.