
Il 31 agosto 1941 Marina Cvetaeva, poetessa e traduttrice moscovita per cui nella Mosca degli anni del comunismo di guerra non c’era più posto, si suicida, lasciando in custodia a Nik Aseev, anche lui poeta – anzi, “una bomba di poeta”! -, il figlio diciassettenne avuto con Sergej Efron, Georgij, detto “Mur”, che di lì a un mese e mezzo, in ottobre, avrebbe perso anche il padre, arrestato nel dicembre 1937 e quattro anni dopo giustiziato, e poi sarebbe morto lui stesso in guerra, nel luglio 1944.
Senza sapere questo, la voce del giovane Mur, pragmatica e disincantata, che ci giunge forte e chiara dalle pagine di “Grida dai tetti il suo amore per me” (Magog, edito nel giugno 2022, euro 12, traduzione e cura di Fabrizia Sabbatini), bel volumetto che raccoglie alcuni scritti sull’arte e la vocazione poetica della scrittrice e il diario di suo figlio potrebbe sembrare meno reale, e perfino meno realistica, di quelle di Pasternak e Cvetaeva in “Un alfabeto nella neve”, parto invece della fantasia brulliana, che interpreta secondo lo spirito, e non secondo la lettera – ma secondo le lettere sì, trattandosi di un epistolario! – la storia d’amore tra i due grandi letterati russi.
Uno struggente addio

Alla luce di questi scarni fatti storici, che peraltro non sono neppure le uniche avversità che Georgij e sua madre dovettero affrontare (al conto vanno aggiunti almeno la morte di stenti di Irina, la prima nata, a neanche tre anni, e l’arresto della figlia maggiore, Ariadna, risalente al 1939), risulta più facile per un verso comprendere lo struggente addio di Marina, che raccomanda al figlio in un biglietto: “Dì a papà e ad Alja, se li vedi, che li ho amati fino all’ultimo minuto, e spiega loro che mi trovavo in un vicolo cieco”, e, d’altro canto, digerire (termine oltraggioso, ce ne rendiamo conto, nei nostri tempi di abbondanza, per riferirci a quei tempi di code per il pane e di zuppe… di chiodo, oltre che di falce e martello!) l’apparente cinismo con cui Mur, appena ragazzo, riesce a metter su carta le sue variegate impressioni, dai primi turbamenti della pubertà alle riflessioni sulla società sovietica.
“La cosa più difficile è arrivare, la cosa più terribile essere arrivati”, scrive, quasi profetico, ma anche “Bisognerà ricostruirli, un domani, gli intellettuali russi”, e “Non vale la pena giocare al comfort, il comfort non è un prodotto russo”.
Nondimeno, mentre la Cvetaeva verga sui fogli, quasi con il proprio sangue, verità di fede e sull’arte che illuminano e colpiscono come folgore – “Un approccio all’arte non esiste, perché è lei che ti prende (S’impossessa di te prima ancora che tu possa arrivarci)”, e “Che cosa possiamo dire su Dio? Niente. Che cosa possiamo dire a Dio? Tutto” -, il povero Mur, che, sopravvivendo, avrebbe fatto di certo la fortuna di qualche psicanalista junghiano, appunta un po’ malmostoso, come ogni adolescente che si rispetti, d’altronde: “Grida dai tetti il suo amore per me, pare sia stato questo a spingerla a tanto. Ma ora deve dimostrare con i fatti di aver capito ciò di cui ho più bisogno” e “da quando abbiamo lasciato Mosca ho smesso di interessarmi a tutto e ho rinunciato totalmente al mio diritto di replica. Che se la cavi da sola!”.
Ma, si sa, ubi maior, minor cessat, e la Cvetaeva questo se non lo sapeva benissimo lo intuiva; già nel 1932, ne “L’arte alla luce della coscienza”, riferendosi alla missione del poeta, scriveva:
“E, sapendo questo, dopo averne scritto in piena facoltà mentale e con chiara memoria, affermo in non meno piena facoltà mentale e con non meno chiara memoria che non cambierei la mia causa con nessun’altra. E più lo so e meno creo, dunque non mi aspetto indulgenza. Solo a quelli come me si chiederà conto della coscienza nel Giudizio Finale. Ma se dovesse esistere un Giudizio Finale della parola, davanti a esso io sarò pura”.
Insomma, Poesia 1- psicanalisi 0…