
«L’individualismo e il culto del presente ci stanno allontanando da ogni continuità. Dobbiamo da un verso mettere in salvo un patrimonio di civiltà che rischia di svanire, e dall’altro mettere al mondo nuove idee». Marcello Veneziani, saggista e filosofo, il 18 giugno è stato a Genova, ospite della rassegna estiva “Incontri a Palazzo Pallavicino”, per discutere del tema del suo ultimo libro, “Senza eredi”: una riflessione sull’assenza di maestri e discepoli in una società contemporanea sempre più calata in un eterno presente che sembra negare la profondità storica, cancellando il passato e non preparando il futuro. Veneziani ritorna su figure di maestri del pensiero e, sul rapporto tra egemonia culturale e politica, da intellettuale conservatore invita la destra di governo a «demolire ogni egemonia, lasciando che a decidere sia la qualità e non l’appartenenza».
Veneziani, il suo volume “Senza eredi” è un insieme di ritratti di maestri che definisce “veri, presunti o controversi in un’epoca che li cancella”: da Vico a Pascal, da Leopardi a Manzoni. E, ancora, Croce, Gentile, Baudelaire, fino a Vattimo, Sartori e Ratzinger. Qual è il fil rouge con cui ha individuato queste figure?
«Sono autori assai diversi, su piani diversi e ambiti diversi. Il filo rosso che li unisce è già nel titolo. Sono tutti in varia misura maestri senza eredi, perché si va cancellando la figura del maestro e dunque quella del discepolo. L’individualismo e il culto del presente ci stanno allontanando da ogni continuità, da ogni riconoscenza, da ogni memoria storica e letteraria. Si spezza il filo della tradizione. È una perdita incommensurabile di cui non ci rendiamo ancora conto».
Il libro sottende una critica serrata alla cancel culture importata da oltreoceano: le sembra che ci siano progressi nell’arginare questa furia iconoclasta?
«C’è sicuramente una forte reazione alla dominazione woke, una crisi di rigetto, sia a livello popolare sia a livello governativo, almeno negli Usa di Trump. Manca però una compiuta rielaborazione culturale che rovesci quella ideologia distruttiva e che riattivi il senso critico, l’amore per la tradizione, l’intelligenza prima ancora dell’appartenenza».
Non essere in grado di trasmettere un’eredità porta al prevalere dell’ultimo uomo nicciano, che in un eterno presente “vive il tempo in cui non avrà più stelle da generare”: è ancora possibile partorire idee nuove?
«È un’impresa ardua, nietzscheanamente eroica, ma necessaria; il senso di decadenza e di morte che si avverte può essere combattuto e superato solo con la voglia di procreare, di far nascere idee e uomini nuovi. Occorre un pensiero “neonato”. Viviamo un tempo in cui abbiamo due compiti: dobbiamo da un verso mettere in salvo un patrimonio di civiltà che rischia di svanire e dall’altro mettere al mondo nuove idee e accingerci a nuove imprese».
Mancano di più i maestri oppure i discepoli?
«Sono naturalmente due processi comunicanti e interdipendenti.Scarseggiano i maestri, ancor più scarseggia la capacità di riconoscerli, e infine scarseggia la pazienza, l’umiltà e l’attenzione dei discepoli che credono di poter fare a meno dei maestri. Così ci troviamo tra monadi che si ritengono autocreate».
Le innovazioni tecnologiche sono sempre esistite: come andrebbero incanalate, oggi, per evitare il rischio che producano sterilità di pensiero?
«Bisogna frenare il fatalismo tecnologico e l’automatismo che ne deriva. Ovvero la convinzione che non ci sia altra via oltre quella che ci prospetta la tecnica. Bisogna interagire con la tecnica, compensare e guidare l’intelligenza artificiale con l’intelligenza critica, governare la tecnica e indirizzarla. Ma questo non puoi farlo se atrofizzi i mondi dell’uomo: la memoria storica, la creatività artistica, l’originalità del pensiero, il senso religioso. Senza quei saperi e quelle facoltà noi siamo in balia della tecnica».

Nel suo libro parla anche di Giuseppe Mazzini: qual è l’attualità del pensatore e rivoluzionario genovese?
«Mazzini cerò un punto di equilibrio tra la dimensione politica e quella religiosa, tra la questione sociale e la questione spirituale, tra il pensare e l’agire, tra l’amor patrio e l’Europa. Ebbe l’idea di una missione educativa verso i popoli e i giovani. Poi fu anche velleitario, insurrezionalista, poco realista. Ma il suo pensiero ebbe un’incidenza trasversale ed ebbe nemici anch’essi trasversali».

Tra le figure che tratteggia c’è quella del filosofo francese Alain De Benoist, padre della nouvelle droite e fautore di nuove sintesi tra destra e sinistra: esiste lo spazio per rielaborare pensieri che oltrepassino gli steccati tradizionali?
«Lo spazio teorico c’è, ma non c’è la disponibilità intellettuale. La società culturale perde ogni giorno il richiamo delle idee ma cresce, stranamente, il livore verso chi non la pensa come noi vorremmo; cresce il deserto del nichilismo ma cresce stranamente l’acrimonia verso chi non è conforme allo standard e al mainstream».
Cosa pensa del dibattito sull’egemonia culturale? Come si sta muovendo la destra di governo su questo crinale?
«È un dibattito importante sul piano storico e culturale ma si svilisce quando scende a livello politico e mediatico, si fa sterile e deprimente, con polemiche a livello di portinaie che si limitano a vedere chi entra e chi esce dai portoni. La destra di governo può fare solo una cosa: non contrapporre un’egemonia a un’altra – anche volendo non avrebbe idee, uomini e mezzi per farlo – ma demolire ogni egemonia e liberare la cultura dalle camorre e dalla sette, lasciando che a decidere sia la qualità e non l’appartenenza». (dal Secolo XIX)