
Il conflitto che oppone Donald Trump all’Università d Harvard — con atti giudiziari, tagli ai fondi e campagne ideologiche — va ben oltre l’ateneo. È il simbolo di una frattura destinata a estendersi: quella tra algoritmi e democrazia, tra intelligenza artificiale e decisioni umane, tra meritocrazia e giustizia redistributiva. In gioco non c’è solo il destino di qualche ateneo: si prefigurano scontri in economia, politica, comunicazione.
La Z-list
I problemi di Harvard non nascono con Trump. Da anni Federico Rampini nota l’opacità dei criteri di selezione: un sistema che, sotto la superficie della meritocrazia, privilegia atleti, figli di donatori miliardari e dinastie culturali. Era la “Z-list”, la porta sul retro per gli ultimi della classe… economicamente potentissimi.
Rampini racconta che Harvard, come molte altre università d’élite, è da tempo passata a una logica di casta camuffata da inclusione. In quel contesto si inseriva l’affirmative action, sistema di quote razziali pensato per riequilibrare gli svantaggi delle minoranze afroamericane e ispaniche. Nobile intenzione? Trappola paradossale.
Neri sì, gialli no
Il vaso di Pandora è stato aperto dagli Students for Fair Admissions, che hanno portato Harvard in tribunale per aver discriminato gli studenti di origine asiatica. Il paradosso era evidente: gli studenti asiatici erano troppo bravi, tanto da essere penalizzati da un sistema progettato per promuovere gli svantaggiati. Un giovane vietnamita, che eccelle in matematica, deve nascondere l’origine, tacere la passione per gli scacchi, e non spuntare la casella “asiatico” nei test di ammissione. Una discriminazione al contrario. Una dinamica distorta, in cui gli algoritmi, progettati per equilibrare l’ingiustizia, ne creano altre. Una sorta di “profilazione etnica positiva”, che ora rischia di ritorcersi contro l’intero impianto delle politiche di equità.
Rovesciare o eliminare?
Il ritorno di Trump sulla scena ha trasformato un dibattito complesso in una guerra di posizione. Le sue mosse — tra cui la minaccia di tagli ai fondi di ricerca di Harvard, l’abolizione delle politiche Diversity, Equity, Inclusion, la richiesta di eliminare ogni forma di affirmative action — sono una dichiarazione di guerra alla cultura progressista. Ma anche tra i suoi alleati si alzano voci critiche. Il politologo Richard Hanania, teorico del superamento della woke culture, osserva su The Economist che Trump rovescia, non elimina.
Chi dentro, chi fuori
La battaglia contro la cancel culture rischia così di diventare essa stessa una nuova forma di censura. Harvard è accusata di essere un bastione del pensiero unico progressista, ma l’alternativa proposta da Trump è il pensiero unico rovesciato. Ma il vero tema va oltre Harvard e oltre Trump. Al centro dello scontro è la crescenrte influenza degli algoritmi nelle decisioni fondamentali della società. Chi sia ammesso, chi promosso, chi ottenga un lavoro o una borsa di studio: tutto è filtrato da sistemi automatici che incorporano pregiudizi tradotti in codice.
Questi stessi dilemmi si notano nel reclutamento aziendale, nella moderazione dei contenuti online, nella selezione dei candidati politici. L’algoritmo che discrimina gli asiatici perché “troppo bravi” è lo stesso che decide quali notizie vedremo sul nostro feed. Il nodo resta lo stesso: come conciliare uguaglianza e merito?
La sinistra americana, nel tentativo di correggere le disuguaglianze storiche, ha creato barriere invisibili contro i più bravi, se appartengono alle “minoranze sbagliate”. Trump, invece, vorrebbe abbattere ogni correttivo, in nome di un’uguaglianza cieca, che ignori le storture di partenza.
Gli algoritmi determinano il futuro
La battaglia di Harvard è la versione accademica di conflitti che vedremo su scala globale: chi controlla gli algoritmi, decide il futuro. Per questo vale la pena seguirla, comprenderla, discuterla — evitando sia il furore ideologico del trumpismo, sia l’ipocrisia paternalista del progressismo radicale.
Se lasciamo decidere agli algoritmi chi ha diritto al futuro, quel futuro avrà solo l’apparenza della giustizia. La posta in gioco non è chi vince oggi, ma chi scriverà le regole di domani. E per la prima volta, quelle regole potrebbero non essere scritte da uomini.