
È nelle librerie, per l’editore Puntoacapo, un volume di Gian Ruggero Manzoni, Nel lento movimento dei ghiacci (per ordini: acquisti@puntoacapo-editrice.com . Manzoni è ben noto ai lettori quale autore di numerose pubblicazioni, traduttore di testi sacri, studioso di miti ma anche di astrofisica, e soprattutto quale autentico poietes, uomo d’arte e di poesia. Recentemente, il critico Stefano Lecchini lo ha definito artista: «tra i più radicali ed eccentrici presenti in Italia, […] porta in sé una scintilla di verità in un mondo dominato e anestetizzato dal falso». Questa asserzione consente di entrare nelle vive cose del libro che qui presentiamo. Il testo raccoglie tre componimenti in prosa poetica i cui temi hanno valore universale. L’autore dice dall’origine dell’umanità, si interroga sia sul senso del nostro viverre e di quello degli enti di natura che sul significato profondo della morte e, soprattutto, si intrattiene sul valore della creazione artistico-poetica. Una confessione esistenziale ad alta voce, quella di Manzoni, sentita, partecipata, vissuta nella nuda carne.
Un’opera sacrificale, trascrizione del sacrificio, di quel “fare sacro”, proprio di ogni autentico creatore. Lo seppero fare i Greci con la Tragedia, produzione comunitaria, nella quale, in forza della presenza della potestas dionisiaca, i ruoli di autore-attori-spettatori si sovrapponevano: l’uomo per conoscere il principio deve entrare in se stesso, in quel luogo-non luogo nel quale alberga l’origine: «sia per superare l’escatologia […] sia per ritrovarsi in un’apertura completa di significati» (p. 5). Di fronte alla provenienza dal nulla-di-ente e al ritorno a esso, nel “lento movimento dei ghiacci” della vita, l’artista non cede alla disperazione ma, guardando al misterium custodito dalla physis, si insinua in esso facendosene custode. Gli enti di natura, gli atti aristotelici, altro non sono se non ciò in cui l’uno, la dynamis, possibilità-potenza-libertà, pare momentaneamente acquietarsi. Allo stesso modo, le opere dell’artista sono mero excrementum che trascrive un’origine mai normabile che, con l’ex-sistere, dà anche, in esso, la morte. In ciò è da ravvisarsi il tratto aporetico della vita e la dimensione iconoclasta propria dell’arte, «tomba scoperta» (p. 5), sepolcro testimoniante l’eterna resurrezione della Fenice dalle sue ceneri, dai suoi lacerti (lo intese perfettamente il filosofo Andrea Emo). Manzoni ci affida, di là da qualsivoglia consolazione, al «lato più netto, più duro […] enunciazione costante di uno stato» (p. 6), del poietico. Gian Ruggero sfiducia il concetto senza servirsi di concetti, lo fa, di contro, in modalità lieve, poetica.
Leggere le sue pagine, per chi, come chi scrive, ha dichiarato guerra al logo-centrismo servendosi dei suoi logori strumenti, quelli dell’armamentario filosofico-concettuale, è stata davvero un’ esperienza liberante, ri-velativa. Ci ha fatto comprendere quanto si debba lavorare sulla dura scorza dell’Io per far emergere il Sé, al fine di vivere in sintonia con la “forza” che anima le cose. La mia è confessione di un sentimento ignobile, che pensavo di essermi lasciato alle spalle, quello dell’invidia. Si, invidio Manzoni perché il suo dire custodisce il non-detto della Parola, il Silenzio da cui essa sorge, cui ogni parola, di fatto, prova ad alludere. Il senso ultimo della vita, appesa alla libertà nel movimento gratuito e insensato, tragico, del tutto, è ben espresso dalla musica: «il miglior mezzo per sopportare lo scorrere del tempo, per dirsi nella sincerità, per non barare» (p. 13). La musica dice tempo ed eternità esser il medesimo nell’attimo immenso. Nel verbo“sopportare” sta l’insegnamento più profondo che Manzoni lascia al lettore. Con Leopardi, egli ha contezza che l’arte è experimentum che, riproponendo l’effimero ma meravigliate bagliore del principio, ci consente di “ben sopportare” in modalità “euforica” (euphero) gli inciampi dell’ esistenza, non ultime malattie e morte. L’artista sperimenta che, chi si sia posto sulla Via dell’assoluto, dovrà pascersi di solitudine e dolore. L’arte è solo uno dei strumenti atti a “scaldare” tale glaciale solitudine. Un’arte magica e sciamanica, come quella professata, alle più diverse latitudini e in epoche disparate, dagli “uomini di medicina”. Capaci, in sogno e nella trance, di parlare con: «l’anima delle cose» (p. 17), oltre la loro effimera forma-figura. Tutto è in tutto, la natura per l’artista-sciamano, è mixis. Il suo agire s-detrmina le cose dall’ ossificazione cadaverica-concettuale, le libera. Lo mostrano, in tutta evidenza gli “Sciamani” ritratti nel secondo capitolo. Figure contratte, stilizzate in pochi tocchi di lapis, dai quali si evince in qual modo l’universale sia custodito solo dal particolare. Figure dinamiche, sempre oltre se stesse, tese, come nell’arte dei nomadi dell’Asia centrale, a porre in forma, in modalità transitoria, quali inflorescenze destinate a svanire, l’origine inarrestabile, sempre in fieri.
Le figure sciamaniche di Manzoni ci hanno fatto ri-cordare (riportare al cuore, al Centro) un libro di “medaglioni grafici” di un altro figlio di Romagna, Leo Longanesi. Ci riferiamo allo straordinario volume longanesiano “Una Vita”, che molto ci intrigò nella nostra adolescenza imberbe. I luoghi ci segnano, ci formano. Il dire di Gian Ruggero è umbratile, padano. Paradigma di tale letteratura è da rinvenirsi nelle Bucoliche e nelle Georgiche di Virgilio. La penna di Manzoni fa irrompere tra il filari di pioppi, nelle trasparenze dei cieli hiemeli, tra le nebbie della grande pianura, la Quarta Moira, il Nulla di ente, il ni-ente, di cui disse, assieme a un’eletta schiera pensante, Meister Eckhart. La Quarta Moira è il vero protagonista delle pagine di, Nel lento divenire dei ghiacci: un Nulla volitivamente accettato, che non indulge in alcun contemptus mundi! Al contrario, spinge a vivere “intensamente” e, soprattutto, insegna la “rinuncia”. Lo mostra l’ultimo capitolo, appassionato e coinvolgente, dedicato alla recente scomparsa della madre dell’autore. La donna, animata da una fede carnale e sanguigna, retaggio della civiltà contadina, “scelse” il momento di lasciare questo mondo: «in quel totale…ma pur magnifico…disperdersi del certo […] quale esaltante, e di nuovo barbara, sparizione» (p. 96). La Quarta Moira dice vita e morte essere il medesimo: misterium vitae. Per questo, il dire di Manzoni è atto di parresia, parola di verità per quanti oggi abbiamo contezza di “pensare dalla fine”.
Gian Ruggero Manzoni, Nel lento movimento dei ghiacci, Puntoacapo Editore, pp. 113, euro 15,00.
Grazie infinite Giovanni e un grazie alla Redazione di Barbadillo, che seguo da sempre. Un mare di idee sia, appunto, questo contenitore-laboratorio sia il tuo scritto, Giovanni. Teniamo duro, il tempo ci darà, di nuovo, un nostro tempo. Noi si è per la durata, dall’alfa all’omega, non certo ‘gente’ per il momento.