Mentre da varie parti si ipotizza un nuovo, sanguinoso conflitto europeo, ricorrono per l’Italia i 110 anni dall’entrata nella Grande Guerra o Prima Guerra Mondiale, come fu poi denominata.
Quella follia contagiosa, l’immane catastrofe decisa dalle grandi Potenze europee, nella quale uomini apparentemente esperti e ragionevoli, sovrani, capi di governo, responsabili militari rimasero ingabbiati, intrappolati dai propri strumenti operativi, dalle alleanze, pensate più per la difesa che per l’offesa, dall’eccitazione delle pubbliche opinioni, dai sentimenti patriottici, dall’esasperato senso dell’onore, dalla miope sottovalutazione dei rischi e del costo finale del maggior conflitto della storia. Saranno alla fine dieci milioni di caduti, oltre i civili innocenti, un maggior numero di mutilati e tutte le vittime della influenza spagnola, sicuramente più di venti milioni di morti. Una pandemia che i soldati americani portarono in Europa, forse originatasi in una fattoria, causata dalle mucche o dai polli. Pandemia che affrettò, in ultima analisi, la conclusione del conflitto, e che si prolungò poi fino al 1920, in tutto il mondo, mietendo vittime di ogni condizione sociale, tanto prìncipi come contadini. Conflitto immane e spaventoso, quello del 1914-’18, che fu il precedente, la causa determinante di una ancor peggior guerra, vent’anni più tardi, dal 1939, che perfezionò il suicidio dell’Europa. Per noi la “morte della Patria”.
Il primo agosto 1914, verso le 18:30, Guglielmo II si affacciò al balcone del primo piano dell’immenso Berliner Stadtschloss e ad una folla in delirio (centomila persone) annunciò l’Ordine di Mobilitazione per l’imminente guerra contro la Russia. Alla gente ebbra di volontà e di fiducia, convinta del suo buon diritto, accantonata ogni differenza sociale o di ideologia politica, che gridava ‘Viva l’Imperatore!’ ed intonava l’Heil dir im Siegerkranz, il Deutsche Kaiser dai baffoni a manubrio avrebbe poi fatto un’altra delle sue impulsive ed imprudenti promesse: “I nostri soldati torneranno a casa vittoriosi prima che sian cadute le foglie dagli alberi”. Mai previsione fu più errata. Allora “sembrava una vergogna non disprezzare la vita”. Il fascino della bandiera, il sangue generoso, la gloria della Patria stordivano molti. Il ‘patriottismo’ si era trasformato in ‘nazionalismo’, crescentemente esasperato, esclusivo, espansionista. Il termine era stato usato dal filosofo tedesco Johann Herder (Nationalismus) intorno al 1770, ma divenne di uso comune solo negli ultimi decenni dell’800. In quella temperie tardo-romantica idealistica, pesantemente drappeggiata di retorica, si erano forgiati milioni di giovani italiani ed europei. Ancor prima delle ubbie futuriste sulla ‘guerra sola igiene del mondo’: coloro che partiranno cantando, tra i fiori lanciati dalle ragazze, sulle tradotte verso i fronti di battaglie terribili nell’estate 1914 o, per quanto concerne gli italiani, il 24 maggio 1915. Sin dalla fine dell’ 800 le nazioni europee, sempre più divise fra loro, avevano dato luogo ad una grande campagna armamentista. Un cupo militarismo si stava sovrapponendo alla Kultur e non solo in Germania. Gli eserciti di Francia e Germania erano più che duplicati fra il 1870 e il 1914 ed era in pieno sviluppo la rivalità in campo navale fra Gran Bretagna e Germania, che aveva deciso di avvalersi di una poderosa Kaiserliche Marine (marina di guerra) per la sua nuova Weltpolitik, tesa a condividere il monopolio dell’Impero Britannico. Impero che era uscito, dal canto suo, dallo splendid isolation del secolo XIX e che non voleva affatto rinunciare alla propria, netta superiorità nei mari del mondo. “In Europa si respirava aria di guerra”, scriverà Luigi Albertini, l’autorevole direttore del Corriere della Sera.
Anche se noi, reduci della Guerra Fredda, sappiamo che non necessariamente armi, potenza, geopolitica ed altre cose accendono le polveri. Le armi sofisticate non sono ragioni o parole, non fanno le guerre. Quelle le fai anche con i machetes, come successo spesso in Africa.
Dal patriottismo romantico si era passati, in pochi decenni, al nazionalismo radicale ed all’imperialismo su scala planetaria, dal patriottismo ideale di Manzoni, Mazzini, Renan – critico del nazionalismo etnico tedesco – al nazionalismo aggressivo di Corradini, D’Annunzio, Oriani, Barrès, von Treitschke e parecchi altri. Ad Ernest Renan, al suo famoso discorso della Sorbonne, nel 1882, Che cosa è una Nazione?, siamo debitori di una delle più felici definizioni: ‘Il Plebiscito di ogni giorno’. Per il filosofo positivista francese essa è una “dimensione spirituale nella quale un gruppo di persone forma la sua identità e si distingue dal resto per aver vissuto una storia comune, tempi felici e tragici, per voler vivere più cose in tal modo, unito”. La religione, la razza, la lingua, la cultura, il territorio ed altri elementi restano confinati in secondo piano. La Vaterland bismarckiana e guglielmina oscurò la Heimat. Ambe germaniche. Prima Heimat e Vaterland coesistevano. Vaterland è una nozione politica, è il proprio Stato in quanto contrapposto ad altri Stati, è la terra alla quale si appartiene, che si deve e si vuole difendere, ingrandire. La Heimat non si contrappone ad altre Heimat: è un territorio definito non già dalla sua appartenenza ad un sistema politico di patrie contrapposte, ma dal legame che si ha con esso. Heimat è il luogo verso il quale si è legati da affetto e nostalgia, ove ognuno può ritrovare, sempre, il proprio centro.
A furia di pensare ad un conflitto ipotetico esso arrivò nel 1914, improvviso, brutale, certo non casuale, ma quasi inaspettato in quanto a dinamiche spicciole. In fondo, gettando nello sgomento intimo anche chi pubblicamente era tenuto a dire tutto il contrario, ostentando un enorme ottimismo verbale, come il Kaiser Guglielmo. Il nazionalismo esasperato necessitava, per esprimersi compiutamente e realizzarsi, di un massiccio consenso popolare. Di quella che venne poi definita la ‘nazionalizzazione delle masse’. Paradosso: chi accese irresponsabilmente le polveri dell’inferno fu la Duplice Monarchia, l’Austria-Ungheria, una non-nazione, l’Impero dinastico plurinazionale e plurisecolare degli Asburgo, che inglobava ben tredici diverse etnie, di varie lingue e religioni, più o meno mescolate, più una quattordicesima, quella ebraica, già ricca, potente, influente, che si ‘sovrapponeva’ alle altre tredici, senza tuttavia integrarle del tutto, ed una quindicesima, quella tzigana o rom, per nulla integrata. Non vi erano nazionalisti radicali di peso in quel vasto Impero centro-europeo che ancora si riconosceva, seppur sempre di meno, nella veneranda figura dell’ultraottantenne sovrano Francesco Giuseppe. Come poi sostenne Stefan Zweig, fu ‘l’età d’oro della sicurezza’, ma, a torto o a ragione, quel ‘castello di sogni’, per amanti della musica e del teatro, stava stretto a molti, desiderosi di qualcosa di nuovo e diverso. Il giorno tanto invocato arrivò anche per l’Italia. Una data certamente assai infelice. Giovanni Papini, ch’era un uomo fatto non un ragazzo, aveva provocatoriamente declamato su Lacerba:
“Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando le anime la decima per la ripulitura della terra. Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue. È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, della ipocrisia e della pacioseria. I fratelli sono sempre buoni ad ammazzare i fratelli; i civili son pronti a tornar selvaggi; gli uomini non rinnegano le madri belve. Siamo troppi. La guerra è un’operazione maltusiana. Fa il vuoto
perché si respiri meglio. Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai”.
Già all’inizio di agosto ’14, l’intellettuale Ardengo Soffici, futuro aedo dell’Asse fino al 1945, lì scriveva degli alleati della Triplice, dei popoli di Kant, Hegel, Bach, Goethe, Mozart:
“Una vittoria dei bruti tedeschi, di questo popolo senza storia e senza avvenire d’intelligenza, vorrebbe dire per l’Europa la perdita di tutti i vantaggi intellettuali e morali conquistati durante i secoli. La barbarie del moralismo, dell’ottusità mentale e sgobbona scenderebbe a pesar su noi per chi sa quanto tempo. Credo che i buoni europei, la gente della nostra razza, debbono riunir tutti i loro sforzi per la necessità dello schiacciamento delle razze teutoniche, sbarazzarsi dello ‘sterco austrogermanico’”.
Il 24 maggio 1915, l’Italia dichiarerà guerra all’Austria Ungheria, dopo il ‘Maggio radioso’, il vibrante discorso di D’Annunzio allo Scoglio di Quarto dei Mille, una tambureggiante campagna interventista, del Corriere della Sera e di altri organi di stampa. Era la vittoria dell’eterogeneo ‘Partito della Guerra’, che riuniva nazionalisti, irredentisti, liberali conservatori, futuristi, sindacalisti rivoluzionari, la dirigenza massonica, e pure coloro che da un conflitto contro gli Imperi Centrali si aspettavano la rivoluzione sociale o nuove libertà: Mussolini e Salvemini, Corridoni e De Ambris, Gramsci e Togliatti. Aderirono, o si fecero strumentalizzare dall’iniziativa di Vittorio Emanuele III, del Presidente del Consiglio, Antonio Salandra, e del Ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, contro il neutralismo dei liberali giolittiani, dei cattolici, dei socialisti, della maggioranza parlamentare. Una sorta di golpe della ‘minoranza rumorosa’.
Per l’Italia la guerra era evitabile. Nei primi otto mesi di guerra di trincea erano già caduti oltre cinquecentomila soldati. Si conosceva il vero, orrendo volto del conflitto, non come era successo a francesi, inglesi, tedeschi, russi nell’agosto dell’anno precedente. Grazie alla paziente mediazione dell’ex cancelliere del Kaiser, il prìncipe Bernhard von Bülow, per anni ambasciatore di Germania a Roma, Cavaliere dell’Ordine della SS. Annunziata, sposato con una aristocratica italiana e sincero amico del nostro Paese, nella cui amata Capitale si spegnerà nel 1929, il Governo di Vienna avrebbe alfine acconsentito a trasferirci, a conflitto concluso, la sovranità su Trento, la rettifica del confine sull’Isonzo ed a fare di Trieste una Città Libera, il tutto garantito da Berlino, in cambio della nostra neutralità. Roma si era macerata nei dubbi per dieci mesi. Fu alla fine un’opzione meditata e conflittuale, che ebbe la meglio sulla maggioranza politica. Si opposero alla neutralità i miti risorgimentali ed irredentisti, l’ossessione per l’ingrandimento territoriale, il desiderio di abbattere l’ordo annorum, identificato con gli Imperi Centrali. L’Italia “non entrò in guerra da sonnambula, ma ben sveglia”, come qualcuno notò. E presto cominciò a contare i suoi morti. Montagne di caduti. Una foto ritrae anche il Re far colazione sull’erba con i suoi generali presso un’alta pila di cadaveri. Saranno, alla fine, non meno di 650.000. Di più i feriti gravi, i mutilati, i prigionieri (oltre 500 mila) e i disertori. Tra il 1915 e il ’18, oltre 5,2 milioni di uomini sono arruolati, 1 soldato su 14 subisce un processo penale, 1 su 24 è processato come disertore; 15.000 gli ergastoli, 4.000 le esecuzioni capitali. Testimonianze, lettere (censurate), diari di soldati dal fronte, canzoni ripropongono forti emozioni e sentimenti di giovani che sacrificarono, convinti o no, la vita per ‘l’indipendenza e l’unità dell’Italia’. Pagine nate dalla putredine e scritte nelle o intorno le trincee, avendo nelle orecchie le urla dei feriti e negli occhi i cadaveri dei commilitoni, il fetore acre ovunque. Cammin facendo l’idea di patria in alcuni si dissolverà, confondendosi con quella d’una grande truffa. Scoprirono che i veri nemici erano quelli che li avevano mandati in trincea, gonfi di grappa, ad ammazzare altri poveracci uguali a loro, con i carabinieri che gli sparavano contro se indietreggiavano, i gas asfissianti incombenti:
‘Partirono verso il regno della suprema viltà umana. Partirono verso il fango di tutte le trincee. Partirono… E la morte venne! Venne ebbra di sangue e danzò macabramente sul mondo. Danzò con piedi di folgore. Danzò e rise. Rise e danzò. Per cinque lunghi anni. Ah, come è volgare la morte che danza senza avere sul dorso le ali di un’idea’.
‘Che cosa idiota morire senza sapere il perché’, scriverà Renzo Novatore (libertario stirneriano ucciso in un conflitto a fuoco coi carabinieri nel novembre ’22) in Verso il nulla creatore. Dopo l’abbuffata di retorica e nazionalismo, i soldati si scontrarono, per anni, con inenarrabili orrori.
“Tornerete nelle vostre case prima che siano cadute le foglie dagli alberi”, questo è ciò che anche le Autorità italiane promisero (sapendo di mentire) ai soldati il 24 maggio, quando ne vennero arruolati alcuni milioni, per quasi la metà analfabeti: contadini, pastori, artigiani, operai, un esercito senza una vera lingua comune, poco armato, peggio vestito, mal comandato, maltrattato, mandato al massacro. Non per difendere l’Italia, per le trasognate fantasie di parte d’una classe dirigente tanto avida, furbastra, quanto illusa, miope, incapace. Per solidarietà di Logge, per vaneggiamenti d’intellettuali. Che, tra l’altro, confermò all’estero, agli occhi di molti, l’appartenenza del Paese alla specie di “sciacallo internazionale, sempre in cerca di compenso per i suoi tradimenti”. Anche l’anima democratica, repubblicana, laica del Risorgimento fu a favore dell’intervento sciagurato, sottovalutandone costi e svolgimento. Mentre l’abile Giolitti era accusato di indebolire lo Stato, ‘infeudandone’ pezzi alle organizzazioni extra-istituzionali del socialismo, e cedendo altresì a ‘melliflui ricatti clericali’, quell’Italia partì idealmente con la camicia rossa sotto quella di ordinanza e con l’entusiasmo tipico d’una generazione educata alla scuola ‘carducciana’, convinta di compiere il Risorgimento con una guerra di popolo, che avrebbe riformato la Nazione, proiettandola da protagonista assoluta sul proscenio europeo.
Coloro che nel 1914 andarono entusiasti al fronte erano spinti da un patriottismo che non può però essere ridotto a slogan nazionalistici, molti sentendosi cittadini ancor prima che militari. Non andavano a combattere per il piacere della lotta, l’eroismo, le medaglie. La propaganda dei belligeranti non sottolineava, infatti, la gloria o la conquista, ma la condizione di vittime di una aggressione, da parte di chi costituiva una minaccia mortale per i valori della libertà e della civiltà. Per mobilitare milioni di uomini occorreva che la gente pensasse che la guerra non era un semplice combattimento e che il mondo intero sarebbe stato migliore vincendo. I governi britannico e francese dicevano di difendere la democrazia e la libertà rispetto al potere monarchico e militare, mentre il germanico affermava di difendere i valori dell’ordine, la legge, la cultura, minacciati dall’autocrazia e dalla barbarie russa. Solo il sentimento che la causa dello Stato era anche la propria potè smuovere i popoli. Nel 1914 sentirono tale sentimento francesi, britannici, belgi, tedeschi, serbi, russi, turchi. Lo sentiranno gli statunitensi nel ’17 e lo avvertiranno forte molti italiani. Il Re, Salandra, Sonnino furono, però, degli incoscienti che con superficialità cinica gettarono il Paese (inoltre senza soldi) in una tragedia di fatto inutile. Fecero quei signori dall’aria grave, pensosa peggio di Benito Mussolini (e del Re) nel ’40, che considererà impossibile mantenere la neutralità ed una vera sovranità in una penisola accerchiata dalle truppe tedesche vittoriose, dopo l’imprevisto crollo francese, a costo di un bluff. Nel 1915 nessuno ci minacciava.
Non pochi, per la verità, specialmente cattolici e socialisti, soppesavano bene le gravi incognite della guerra, una sicura carneficina, fonte di arricchimento per pochi, di distruzione, sofferenza, morte per la gran maggioranza. Neppure per un sogno rivoluzionario. Era il pensiero dell’anziano Giovanni Giolitti, più volte Presidente del Consiglio, liberale pacato e lungimirante. Non condivise mai l’intervento, anche se poi appoggiò lealmente lo sforzo bellico, per quel patriottismo che per lui non era una formula vuota. Un uomo realista, un conservatore illuminato che sapeva adattarsi, cercando di padroneggiarla, alla variegata realtà sociale italiana. Come lasciò scritto nelle Memorie della mia vita: “le leggi devono tener conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un Paese. Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all’abito”. Neppure, come ha scritto Eric Hobsbawn nel suo grande affresco L’Età degli Imperi:1875-1914 (1976), esisteva la sicurezza della fedeltà dei propri sudditi/cittadini. Fu quando i governi scoprirono il significato politico delle emozioni. Fare appello al lato irrazionale dell’essere umano poteva dare ottimi risultati. Diffatti, quando vennero erosi i metodi antichi, fondamentalmente religiosi, per assicurarsi la subordinazione, l’obbedienza e la lealtà delle popolazioni, si resero necessari sostituti efficaci. Uno di essi fu l’ ‘Invenzione della Tradizione’, che utilizzava elementi antichi e sperimentati capaci di suscitare emozioni, come la Corona o la gloria militare, ed altri nuovi, come l’Impero e le conquiste coloniali. La vita politica si ritualizzò sempre più, riempiendosi di simboli e richiami propagandistici, tanto aperti quanto subliminali: inni e bandiere, soprattutto, emblemi di unità e lealtà, utilizzati da repubbliche come Francia o Stati Uniti, più che non dalle monarchie. Strumento fondamentale l’Esercito di Leva, che si diffonde sul modello della levée en masse della Francia rivoluzionaria, e che diventa la prima grande ‘scuola della nazione’. Pedagogia della caserma, che è il seguito di quanto appreso sui banchi di scuola, mentre i simboli si moltiplicano e consolidano, ovunque. Alla fine del XIX secolo, le popolazioni locali e la miriade dei villaggi contadini e delle periferie vengono introdotti alla nuova ‘religione della patria’ attraverso appropriate politiche simboliche: le festività nazionali (la Presa della Bastiglia in Francia, la Battaglia di Sedan in Germania); e le cerimonie pubbliche, alle quali assistono folle provenienti da ogni parte del Paese. A Roma, per i 25 anni dell’Unificazione, il grande pellegrinaggio alla tomba di Vittorio Emanuele II, a San Pietroburgo per la fastosa incoronazione di Nicola II (1894), a Londra per la partecipazione di massa ai funerali della Regina Vittoria (1901) e poi di Edoardo VII (1910). I monumenti esaltano la capacità creativa della nazione o i suoi padri fondatori: la Tour Eiffel (1889), il Reichstag berlinese (1894), le statue a Garibaldi, l’enorme Vittoriano al primo Re d’Italia, a Guglielmo I, a Bismarck, alla Libertà ecc. Nel 1917, dopo la rotta di Caporetto e l’arretramento del fronte al Piave, le centinaia di migliaia di soldati italiani fatti prigionieri divennero motivo di vergogna per una parte dell’opinione pubblica, a volte per le stesse famiglie, e d’imbarazzo per i Comandi Militari, che ricorsero alla definizione di ‘traditori e vigliacchi’, per giustificare il disastro. A differenza dei prigionieri inglesi, francesi e serbi, gli italiani furono in pratica abbandonati al proprio destino dalle Autorità della madrepatria, che imputarono loro l’onta di essersi arresi, trattenendo soccorsi e pacchi della Croce Rossa. Centomila morirono di stenti e malattie. Già al tempo dell’XI Battaglia dell’Isonzo, la ‘Rivolta del pane di Torino’ aveva evidenziato un sentimento popolare di crescente esasperazione, influenzato dalla Rivoluzione Russa del Febbraio 1917 e dalla fine dello zarismo. La rivolta assunse pure un carattere antimilitarista contro la guerra, con decine di morti, tra il 21 ed il 26 agosto. A fatica fu domata ed i dirigenti socialisti moderati ripresero il controllo del movimiento operaio. Dopo Caporetto, senza una direzione rivoluzionaria, il proletariato rimase poi isolato e battuto dalle parole d’ordine governative della ‘Patria sul Grappa’. Tali eventi procurarono un mutamento nella classe dirigente che, di fronte al pericolo esterno (Caporetto) ed interno (Torino), divenne più sensibile ai problemi delle masse lavoratrici, contadine ed operaie, riconoscendo la necessità di accelerarne la piena inclusione nello Stato, non solo per vincere la guerra, ma per rifondare il sistema politico che ne sarebbe scaturito. Fu aumentato il controllo sui profittatori di guerra e si curò una credibile propaganda tra le fila dell’Esercito. Il nuovo Comandante Supremo, Armando Diaz, il successore di Luigi Cadorna, ne attenuò la durezza e promise, per conto del Governo, di dare ‘la terra ai contadini’. Se nel maggio 1915 i soldati in partenza sulle tradotte cantavano euforici, baldanzosi, una canzonaccia irridente di Enrico Fumi, ‘Guglielmone, Cecco Beppe e Maometto’ (il sultano Muhammad V), due anni più tardi, i toni de La tradotta che parte da Torino saran ben diversi: “La tradotta che parte da Torino a Milano non si ferma più, ora va diretta al Piave cimitero della gioventù. Siam partiti, siam partiti in ventinove ora in sette siam tornati qua e gli altri ventidue son morti tutti a San Donà”.
Ciò ricordato, le immani sofferenze, le dimensioni del sacrificio, sarebbe assurdo ed antistorico disconoscere la grande prova di resistenza morale e di unità che, comunque, al di là di colpe militari e carenze di pubblici poteri, l’Italia sconfitta ed umiliata di Caporetto seppe dimostrare. Quella dei ‘Ragazzi del ’99’, esaltata dalla Leggenda del Piave di E. A. Mario, che si diffonderà negli ultimi mesi del conflitto, fino a convertirsi nella nostra più celebre canzone patriottica. Criminale fu la stoltezza della guerra in generale ed il nostro funesto contributo ad abbattere un Impero, l’Asburgico, che costituiva una relativa garanzia di pace nell’Est dell’Europa, un fattore di equilibrio, che non perseguiva logiche imperialistiche, attaccato sconsideratamente nel 1915. Va sottolineata altresì la miopìa che accompagnò la nostra campagna propagandística denigratoria (ispirata dalle Logge d’Oltralpe), nei confronti del giovane, immaturo, cattolicissimo Imperatore Carlo I e della sua volitiva moglie italiana, Zita di Borbone-Parma, già poco amati o disprezzati alla Corte di Vienna ed ancor peggio a Berlino, allorché cercarono, nel ’17 (attraverso i fratelli dell’imperatrice Zita, Sisto e Saverio, ufficiali dell’Esercito belga), una lungimirante, ma scombiccherata pace di compromesso con la Francia di Clemenceau, l’interlocutore più ostico, ed alle spalle della Germania; buttando sul piatto della ‘trattativa’ territori tedeschi (!), l’alleato che, peraltro, proprio l’Austria-Ungheria aveva trascinato in guerra nel ’14. Constatando che, se era stato facile entrare in un conflitto, difficilissimo era poi uscirne, perché una ‘guerra ideologizzata’ (pur se per la Duplice Monarchia lo era di meno), che ha richiesto sacrifici immensi alle popolazioni, non può terminare con la sostanziale ricostituzione dello statu quo precedente, come capitava con le vecchie guerre dinastiche, ma bensì solo traumaticamente. Così in effetti fu.
Non si può negare che grande ed ammirevole fu la coesione esibita dall’Italia dopo la rotta di Caporetto e soprattutto nella II Battaglia del Piave, nel giugno ’18, quando austriaci e tedeschi tentarono, vanamente, l’ultima grande offensiva per vincere il conflitto sul nostro fronte. Infine, Vittorio Veneto (pensata inizialmente come un’azione dimostrativa, mentre l’Esercito nemico già si stava sfaldando, con reggimenti cechi, polacchi, croati, ungheresi che abbandonavano la lotta), una battaglia iniziata il 23 ottobre 1918 – un anno dopo la rotta di Caporetto – l’Armistizio di Villa Giusti, sottoscritto il 3.11, il Bollettino della Vittoria (testo di Ferruccio Parri) del 4 novembre, che tutti gli scolari avrebbero appreso a memoria, le truppe italiane che entravano a Trento e Trieste festanti. Poi la ‘Vittoria Mutilata’, le lacrime di Vittorio Emanuele Orlando, il Trattato di Versailles del 1919, l’Impresa di Fiume nel ’20, il ‘Biennio Rosso’, il magma caotico del dopoguerra che accomunava la nostra sorte a quella delle sconfitte Germania, Austria, Ungheria. Con troppi veleni in circolazione nella società italiana, che la guerra aveva moltiplicato.
Furono cancellati dalle mappe il Rossijskaja Imperija, l’enorme dominio degli Zar e Autocrati di Tutte le Russie, la Sublime Porta turco-ottomana, la Kaiserliche und Königliche Doppelmonarchie austro-ungarica, il Deutsches Reich tedesco. Non si aprirono con la pace le porte del Paradiso, piuttosto si schiusero quelle di altri inferni. In Italia si ebbero l’apoteosi del Soldato Ignoto, l’Altare della Patria al Vittoriano, la Marcia su Roma il 28 ottobre 1922 e l’avvento del Regime Fascista. Il soldato caduto, ed il fante in particolare, vennero mitizzati nel loro sacrificio supremo per la Patria, oggetto di dedizione assoluta, con la sua trasfigurazione simbolica, depositaria di alti valori, virtù, significati. Col vero e proprio mito dei caduti di guerra il lutto diventò una parte fondamentale dell’identità nazionale. Negli anni ’30 vennero edificati in Italia i grandi Sacrari Militari, Redipuglia su tutti, cimitero monumentale per centomila resti. La rievocazione, sublimata, delle vicende belliche. L’esaltazione nella pietra, la gran croce del Sacrario ‘Per la Patria Immortale’, il misticismo guerriero, l’identificazione dei caduti con i martiri, il ‘raduno dei morti’, nuovo rituale patriottico-cristiano. Come il Milite Ignoto, i Parchi della Rimembranza, le steli coi nomi dei Caduti – in ognuno degli oltre ottomila Comuni della Penisola- dovevano assicurare l’attualità perenne, la perpetuazione del sacrificio, dell’eroismo del popolo. La spettacolarizzazione della memoria tragica come presupposto della ‘fabbrica del consenso’, nell’ottica de La nazionalizzazione delle masse, famoso testo di storia di George Mosse (1974).
Vogliamo farci risucchiare – la Bruxelles ‘guerrafondaia’ dell’oltranzismo, radicalizzazione, russofobia – dalla follia retorica e suicida? La guerra è una scelta, mai una fatalità ineludibile. Per secoli la politica di Casa Savoia fu di entrare in ogni conflitto, ad esempio. L’ultimo le fu fatale.
Certo, solo Putin può fare le guerre, lui è bravo, vero? Invece noi italiani facciamo schifo, no? Solo in Italia si trova gente pseudointellettuale pronta a sputare sul proprio passato. Anzi, no, ormai si trova in tutto l’Occidente. Altro che “russofobia”.
Luca. Armati e parti!!!!
Anche Papini incitava alla guerra nel 1914-’15, sapendo benissimo che lui, fortemente miope, mai avrebbe visto il campo di battaglia!