
Studiare i conflitti geopolitici significa apprendere fatti e dinamiche che hanno attraversato il nostro tempo e conoscere soprattutto le vicende costate a un popolo un bagno di sangue. Ma l’iniziativa più utile, forse, è quella di andare sul posto, visitare trincee, luoghi di operazioni militari, valli dove si sono svolte le più dure battaglie. Una vita di privazioni, quella del fronte, di rischi, necessari per affrontare il nemico e piegarlo nel confronto, nel corpo a corpo, negli scontri sotto la pioggia di shrapnel. Un costo molto alto quello di 650mila morti nella prima guerra mondiale. Ancor più terribile se si pensa che, durante la prima guerra mondiale, nelle prime file dell’esercito italiano venivano schierati ragazzi dai sedici ai diciannove anni.
Tranne che per i casi dei disertori, gli altri, la stragrande maggioranza, combatterono e rimasero mutilati, morirono sul colpo, morirono per le ferite riportate. I corpi d’élite, a esempio gli arditi, mostrarono di avere molto fegato e ogni città o paese della penisola dette il suo contributo in uomini e sangue.
Nella temperie degli scontri, fra un assalto con la baionetta e le accecanti e assordanti esplosioni che squassavano il terreno tutto intorno, la vita di ognuno si temprava per un verso e svaniva se il prezzo da pagare era la morte. Uno fra i più determinati a sollecitare la foga del combattimento era proprio Gabriele d’Annunzio (1863 – 1938) che con i suoi discorsi o scritti incendiava gli animi, spiegava e motivava la furia del combattimento. Ora, Passaggio al bosco ripubblica dopo vari decenni il testo La riscossa. Scritti e discorsi per gli italiani in trincea che uscì per la prima volta nel 1918 composto da dieci “orazioni guerresche”, tenute fra novembre1917 e il maggio 1918, discorsi tenuti in piazza, davanti ai soldati, o articoli comparsi sul “Corriere della Sera”. E’ considerata un’opera minore e spiega benissimo perché D’Annunzio amava definirsi con l’appellativo di “uomo d’arme”. Non era facile scrivere questi appelli che dovevano essere compresi da tutti perché oltre la metà dei soldati era analfabeta e comunque le masse erano molto eterogenee: contadini del nord spalla a spalla con contadini del Sud, operai del Trentino che condividevano le giornate con operai campani, gente che si esprimeva solo nel proprio dialetto e comunicare diveniva molto difficile. D’Annunzio fece leva sull’amor patrio e sull’uguaglianza fra Patria e religione, nonostante lui fosse pagano, nietzscheano, con richiami al sacro. Toccava le corde più sottili dell’animo umano. Non solo: proprio lui, poi, dava l’esempio combattendo, facendo incursioni aeree oltre le linee nemiche e poi, per tutelare i confini della patria occupò, con i propri volontari, Fiume.
Quindi, grande scrittore, poeta, guida nell’impegno militare, assunse il ruolo di militante e propagandista per coloro che erano interventisti, scelta dura, fatta per poter cambiare l’Italia, una volta terminata la guerra.
Ogni discorso di D’Annunzio era un inno alla Patria, era un impegno con se stesso e la Patria ma anche il riconoscimento dell’importanza della morte, che assurgeva a momento di passaggio non al Paradiso ma a una dimensione olimpica ed eterna. Insomma, nelle parole del Vate c’era anche la volontà di formare un nuovo soldato, un nuovo italiano che a sua volta avrebbe dovuto forgiare la nuova Patria.
Gabriele D’Annunzio, La riscossa. Scritti e discorsi per gli italiani in trincea, Passaggio al bosco, pagg. 151, euro 12,00; ordini: www.passaggioalbosco.com