L’impegno per una costante opera di controinformazione sulle foibe non è terminata con l’istituzione del giorno del ricordo ma prosegue quotidianamente con la ricostruzione di particolari documentali o storico-politici che hanno portato al genocidio degli italiani del confine orientale da parte dei comunisti slavi di Tito.
Edito da Mursia, nell’imminenza del 10 febbraio scorso, Giorno del Ricordo, è uscito il libro “Togliatti, Tito e la Venezia Giulia. La guerra, le foibe, l’esodo 1943-1954”.
Prefato da Giovanni Stelli, l’autore è Marino Micich, direttore dell’Archivio-Museo storico di Fiume facente parte della Società Studi Fiumani.
Figlio di esuli dalmati vissuto fin da bambino a Roma nei padiglioni dell’ex Villaggio Operaio dell’Eur diventato dal 1948 in poi Villaggio Giuliano-Dalmata, le drammatiche vicende legate alle foibe ed all’esodo hanno sempre riguardato da vicino Micich che da anni svolge approfonditi studi storici.
Il libro di cui trattiamo nella presente intervista, già alla seconda edizione, lo scorso 15 aprile ha ricevuto il premio Caravella Tricolore-Natale di Roma per la Saggistica.
Dottor Micich, con il Giorno del Ricordo, la Repubblica italiana fatto realmente i conti con la Storia riguardo silenzi ed omertà su foibe ed esodo?
“Penso che la Repubblica Italiana abbia intrapreso un giusto cammino verso il rispetto della storia di tutti i suoi cittadini e quindi anche degli esuli giuliano-dalmati, ma c’è ancora molto da fare soprattutto nel mondo delle Università e delle scuole. In questo senso va segnalato che la legge 92/2004 è stata ampliata nei suoi contenuti e che il governo ha disposto circa un milione di euro per favorire i viaggi di studi delle scuole italiane nei luoghi simbolo di una storia lungo negata come la foiba di Basovizza e altre testimonianze di cultura e civiltà italiane presenti a Trieste e in Istria. Non resta che sperare”.
Nelle ricerche da cui è scaturito il libro in quali ambiti si è mosso?
“La storia va sempre documentata, altrimenti diventa libera narrativa, una sorta di ‘fiction’. Io per scrivere il mio libro ho avuto la possibilità di accedere a documenti di prima mano conservati presso l’archivio del Pci, custoditi dall’‘Istituto Gramsci’, altri pressi l’Archivio Centrale dello Stato, assieme a documenti in lingua croata reperiti negli archivi di Zagabria e di Fiume-Rijeka. Ho avuto una certa disponibilità e fiducia in quelle istituzioni a reperire la necessaria documentazione”.
Ci descrive dettagliatamente l’alleanza fra il Pci e Tito?
“Mi sono attenuto a un criterio di narrazione storica basato sulle scelte politiche fatte in Venezia Giulia dal Partito Comunista Italiano guidato da Palmiro Togliatti, in un periodo che parte dall’8 settembre 1943 (data dell’annuncio di resa incondizionata dell’Italia fatto dal generale Badoglio) e arriva fino al 1954, anno del ritorno definitivo di Trieste all’Italia. In quel periodo, dalla documentazione da me esaminata e in parte reperita presso l’Archivio del PCI depositato presso l’‘Istituto Gramsci’, esisteva da parte del PCI di Togliatti una stretta alleanza con i comunisti jugoslavi guidati da Tito, che col passare del tempo diventò sempre più strategica. Da una parte il PCI e le Brigate partigiane ‘Garibaldi’ presenti in zona giuliana portano avanti con estremo sacrificio la lotta contro il nazismo e il fascismo, dall’altra parte alcuni capi comunisti come Pietro Secchia e Luigi Longo non trascuravano la possibilità di stabilire a guerra finita, tramite un più vasto moto rivoluzionario appoggiato dai partigiani jugoslavi di Tito, un regime comunista anche in Italia. Le intenzioni e i piani di questi due importanti esponenti comunisti non erano però sempre appoggiate dal segretario generale del PCI Palmiro Togliatti, il quale tutto sommato doveva rispettare, dopo la cosiddetta ‘svolta di Salerno’ e l’entrata del PCI nel II governo Badoglio (22 aprile 1944), il patto tra Stalin e gli Alleati occidentali stabilito a Yalta nel febbraio 1945. Con i patti di Jalta si stabilirono le nuove sfere di influenza in Europa a conflitto concluso e in relazione al futuro politico dell’Italia, essa sarebbe dovuta passare sotto l’influenza americana e non sovietica. Il PCI tra il 1945 e il 1954 si muoveva politicamente su un doppio binario, da una parte la lotta contro il nazismo e il fascismo dall’altra spingere a guerra finita verso una rivoluzione comunista in Italia, causando dissapori tra le varie parti in causa e nuove vittime. Il fattore ideologico divenne a un certo punto predominante nelle scelte tattiche e strategiche del Pci in Venezia Giulia rispetto all’interesse puramente nazionale italiano”.
Riguardo la rivoluzione comunista in Italia, quanto avveniva ad est, era in sinergia con i crimini in Emilia Romagna nel Triangolo della morte e con quelli della Volante Rossa nel nord Italia?
“Dai documenti esistenti nei vari archivi da me consultati, ma anche secondo storici affermati come Raoul Pupo e Gianni Oliva come anche i giornalisti Giampaolo Pansa e Giorgio Pisanò, la strategia del Pci di Togliatti era duplice come spiegato prima: da una parte sconfiggere i tedeschi e le forze della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, dall’altra parte portare avanti un progetto di rivoluzione comunista in Italia; pur nella consapevolezza che a Jalta, Stalin aveva lasciato l’Italia sotto l’influenza statunitense. Gli eccidi e i crimini commessi da parte di partigiani militanti comunisti in Emilia e in Veneto tra il 1945 e il 1946, non solo nei confronti di fascisti ma anche nei confronti del clero, di imprenditori e di militanti appartenenti ad altre forze politiche, rientrano nella logica rivoluzionaria che avrebbe portato l’Italia sotto una dittatura comunista”.
Circa la frattura del 1948 in seguito ricompostasi, fra il comunismo sovietico e quello di Tito, che atteggiamento assunse il Pci vista la sua stretta osservanza filosovietica?
“In questo periodo piuttosto lungo e complesso avvenne nel giugno 1948, l’allontanamento dei comunisti jugoslavi di Tito dal Cominform. Stalin non si fidava di Tito e delle sue tendenze egemoniche nell’intera Penisola Balcanica. Tito diventava sempre più una specie di concorrente per i sovietici e che bisognava ridimensionare. Il Pci di Togliatti rimase, tuttavia, allineato con Mosca e, pertanto, fecero lo stesso i militanti comunisti italiani autoctoni dell’Istria e di Trieste, ai quali vanno aggiunti circa 2.000 comunisti italiani giunti a Pola e a Fiume, tra il 1946 e il 1947, in gran parte da Monfalcone e dintorni (ma anche da varie parti d’Italia), trovandosi ben presto a mal partito col regime di Tito. Andati, questi militanti, con le proprie famiglie nelle terre istriane per rimpiazzare gli esuli e prendere lavoro nei cantieri navali e nelle scuole vennero, dopo l’abiura di Tito da parte di Stalin, gran parte arrestati e deportati nei campi di Lepoglava, Stara Gradiska e a Goli Otok in quanto sospetti di anti jugoslavismo ideologico. Molti di loro non tornarono più vivi dai lager di Tito. Solo da quel momento in poi Togliatti con il suo nuovo delegato per la Venezia Giulia, l’internazionalista Vittorio Vidali, difese l’autonomia di Trieste dalle mire annessioniste di Tito. In ogni caso, Togliatti e i suoi non chiesero nemmeno in quel momento storico favorevole all’Italia l’annessione del Territorio Libero di Trieste e così continuarono a farlo anche nel 1954 dopo la firma del Memorandum di Londra, che sancì il ritorno della città giuliana all’Italia. Trieste doveva rimanere autonoma per promuovere in futuro un esperimento politico di marca comunista. L’ideologia marxista nei comunisti italiani era più forte del sentimento di appartenenza alla Patria italiana”.
La congiura del silenzio su foibe ed esodo non può essere stata solo opera del Pci. Quanto hanno inciso le coperture istituzionali sulla vicenda e perché avvenne ciò?
“Riguardo al silenzio sulle foibe e sul grande esodo degli oltre 300.000 istriani, fiumani e dalmata, seppur con i dovuti distinguo, c’è anche la responsabilità delle altre forze politiche. Dal 1945 fino al 1954 sia i democristiani di De Gasperi e sia le altre forze politiche come i liberali e gli azionisti denunciavano i crimini del regime di Tito e cercavano di dare dignitosa accoglienza agli esuli giuliano-dalmati. Tuttavia, per una serie di eventi internazionali, tra cui il già ricordato allontanamento dei comunisti jugoslavi dal Cominform nel giugno 1948 che produsse un avvicinamento strategico del regime jugoslavo di Tito verso gli Stati Uniti e la Nato, si preferì in generale attenuare i toni polemici nei confronti del dittatore jugoslavo, perché poteva diventare al momento opportuno un valido alleato contro i sovietici. Nel clima di Guerra fredda il ruolo di Tito divenne senz’altro importante e successivamente l’inserimento della Jugoslavia nel sistema dei Paesi non allineati aumentò ancor di più la considerazione nei suoi confronti. Il risultato finale di tali situazioni fu l’emarginazione a livello mediatico e politico della tragedia dell’esodo giuliano-dalmata e delle vittime delle foibe per lunghi decenni; fino a quando nel 1991 la ex Jugoslavia iniziò ad implodere e nel 1996 scomparve definitivamente, per lasciare spazio alle repubbliche di Slovenia, Croazia, Bosnia, ecc. Solo da quel momento in poi rinacque l’interesse nei confronti della storia taciuta degli esuli con il suo bagaglio di grandi sofferenze e di ingiustizie”.
Il Partito Socialista, anch’esso filosovietico, all’epoca alleato del Pci ha avuto delle responsabilità riguardo foibe ed esodo?
“I socialisti italiani guidati allora da Pietro Nenni, in realtà avevano una posizione diversa dal Pci di Togliatti riguardo ai nuovi confini da stabilire tra Italia e Jugoslavia. Inoltre non risulta ad oggi alcuna responsabilità diretta dei socialisti nelle stragi delle foibe. La posizione di Nenni era quella di sostenere l’italianità dell’Istria occidentale e di Trieste, basandosi sui censimenti di allora, secondo i quali gli italiani risultavano essere la maggioranza in quei territori. Nel mio libro a pag. 101 metto in evidenza l’opposizione di Nenni allo scambio proposto da Togliatti e Tito di Gorizia, che doveva andare alla Jugoslavia, con Trieste. L’annuncio di tale proposta fu reso pubblico il 20 novembre 1946 e non ottenne fortunatamente successo, anzi si rivelò controproducente per il Pci. Con questi brevi esempi la posizione dei socialisti di Nenni sulla questione giuliana, appariva ben diversa da quella di Togliatti”.
Gli altri partiti del Cln che posizione assunsero?
“L’alleanza tra Togliatti e Tito non fu certamente appoggiata dagli altri partiti del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. I democristiani, gli azionisti, i repubblicani e gli stessi socialisti presero a un certo punto le distanze dai comunisti italiani, quest’ultimi decisero già nel corso della fine del 1943 di sottoporre le proprie formazioni al comando del Movimento Popolare di Liberazione Jugoslavo. Si arrivò poi tra il 7 e il 15 febbraio del 1945 al compimento della strage di Malga Porzus, dove il capo della Brigata comunista Garibaldi-Natisone, Mario Toffanin, diede l’ordine di imprigionare e poi di liquidare i partigiani bianchi, non comunisti, della Brigata Osoppo che non volevano sostenere il piano di annessione jugoslavo. Tra gli uccisi Guido Pasolini, fratello del regista Pier Palo Pasolini e Francesco De Gregori (detto “Bolla”) zio del famoso cantautore romano che porta il suo stesso nome. Ci furono dopo altri episodi di contrasti veri e propri tra le due Resistenze”.
Il Giorno del Ricordo rischia di diventare un rituale senza pathos. Cosa fare per evitare tale rischio?
“Bisogna incrementare nuovi studi e ricerche e inserire la storia complessa del nostro confine orientale nei libri di testo scolastici. Solo così si può creare una più vasta conoscenza e una percezione più adeguata nella cittadinanza dei contenuti storici e dei valori etici che sono alla base del ‘Giorno del Ricordo’”.
Barbadillo ha promosso l’iniziativa È tempo che l’Italia abbia un senatore a vita esule istriano-dalmata. A suo parere sono i tempi maturi?
“Non credo che i tempi siano completamente maturi, mi dispiace dirlo ma di strada da fare ne corre ancora tanta; in quanto la maggioranza della classe intellettuale italiana è distante da questi temi e non ha ancora acquisito un’equa sensibilità per affrontarli. Basta leggere le dichiarazioni sulle foibe che ancora oggi vengono fatte da noti studiosi come Tomaso Montanari, Angelo D’Orsi e persino Alessandro Barbero, rivolte a ridimensionare e ‘giustificare’, utilizzando le colpe del fascismo, la politica violenta e sconsiderata dei comunisti di Tito nei confronti degli italiani delle terre giuliane e dalmate. Per fortuna sono apparsi nel frattempo nuovi studi di altri storici come Gianni Oliva, Roberto Spazzali, Giovanni Stelli e Raoul Pupo, che affrontano la difficile tematica storica con maggior equilibrio e cognizione di causa”.
Marino Micich, “Togliatti, Tito e la Venezia Giulia: La guerra, le foibe, l’esodo 1943-1954”, Mursia
Ottima intervista. Purtroppo lo storico del nedioevo,Alessandro Barbero,nelle sue incursioni sulla storia moderna e contemporanea (foibe,25 aprile,ecc.) ha dimostrato tutta la sua faziosità e pochezza,ignorando il principio guida d’ogni storico, vale a dire che nella storia ci sono sempre opposte ragioni, che ci sono vincitori e vinti ma non c’è mai una parte sbagliata e una giusta. Un conto è il giudizio storico,un altro conto è il giudizio morale, se uno storico non ne tiene conto non ha dignità storico!
Barbero è un attivista fazioso, non uno storico!