
È nelle librerie, per i tipi di Silvana Editoriale, un volume di Massimo Donà, Filosofia della fotografia. I prodigi di un insospettabile “obiettivo” (pp. 93, euro 18,00). Il libro è arricchito dalla prefazione di Italo Zannier, fotografo di vaglia e storico della fotografia. Le pagine di Donà, mirate a disvelare senso e significato del fotografare, muovono da questa definizione di Zannier: «la fotografia può essere intesa come una tecnica che consente di ottenere immagini figurative di porzioni della realtà, ma […] non necessariamente percepibili dal nostro occhio, mediante gli effetti provocati dalla luce […] su alcune sostanze sensibili» (p. 48). L’argomentare del pensatore veneziano è sostenuto da una non comune conoscenza della letteratura critica in argomento. Egli attraversa e discute, con pertinenza argomentativa e persuasività di accenti, non solo gli aspetti teoretici implicati nell’arte fotografica ma anche, con minuzia di particolari, la sua storia, discussa in relazione ai momenti salienti della rivoluzione tecnico-scientifica e intellettuale della congerie storica nella quale la “scrittura di luce” fece la sua prima, timida, comparsa (in particolare nel capitolo, Verso l’invisibile).
Fotografia come arte
Se la fotografia è arte che ha avuto nel Novecento il proprio momento saliente, rileva Donà, essa ha a che fare, come le altre arti del “secolo breve”, con una storia millenaria e, in particolare, con il problema rappresentato dall’irruzione del cristianesimo nella cultura europea. La nostra civiltà è stata l’esito dell’incontro tra il rigido monoteismo ebraico con: «il variegato e popolatissimo Olimpo della cultura greca» (p. 30). Mentre il giudaismo negava la rappresentabilità del divino, la grecità, di contro, è stata attraversata da una polifonia del sacro sostanziata di immagini divine. In tale iter, il dogma trinitario cristiano avrebbe rappresentato una paradossale novità, atta a dire in uno la semplicità: «dell’unico principio quanto la variegata polimorficità di una realtà dai mille volti» (p. 33). Il trinitarismo induceva a pensare tanto la non-raffigurabilità del divino, quanto il suo essere raffigurabile. L’immagine divenne, pertanto, “soglia” che conduceva a un’ulteriorità insondabile, come attestato dalla teologia dell’icona di Florenskij: «l’immagine sarebbe stata ritenuta vera solo nella misura in cui si fosse dimostrata capace di custodire la perfetta invisibilità di quel che essa medesima mai si sarebbe azzardata a mostrare» (p. 34). Il cristianesimo è stato, nel medesimo tempo, iconoclasta e iconofilo.
Immaginazione
“Immaginare” significa ritagliare una “parte”, istituire la sua determinatezza ma, al contempo, tale “immaginare” rinvia a un’azione di custodia, al suo evocare il “tutto” come, a sua volta, “determinato”. Ciò vuol dire che, immaginando, istituiamo l’indeterminatezza della parte nel suo essere relata al “tutto” in quanto, oltre la parte: «vi è sempre e solamente un’altra parte […] diversa da quella caratterizzante la parte che dovessimo aver preso in considerazione» (p. 37). Insomma, nota Donà, la parte non è mai altra né dal tutto assoluto, né dal tutto parziale, essa non: «si “determinerà” mai […] come distinta dal tutto» (p. 38). Tale situazione è paradigmaticamente testimoniata dalla fotografia. I fotogrammi non saranno mai vita in toto, ma la vita in essi: «sarà comunque venuta ad immaginarsi» (p. 39). Il fotografo fissa una “permanenza” di fatto in-esistente, nell’unica immagine possibile che il divenire della vita si concede. La foto, nella sua immobilità, è “parte” della vita non rinviante a un altrove, a un “fuori” dalla vita stessa, a un’idea quale universale capace di spiegare le singolarità del mondo. Il fotogramma espone a un’altra dimensione della vita che si agita, invisibile, in tutto ciò che è, non rinviando né al passato né al futuro, ma alla vita nuda, tragica e ammaliante. Il fotogramma nella sua positività, nella sua incontestabile datità empirica, dice ciò che in ogni positum palpita, dice il non, la negatività dell’origine alla quale siamo appesi.
Visione anti-universalista
La fotografia fa comprendere che le cose non sono mai quel che “dicono” di essere: «riuscendo a far emergere quello che le persone e le cose in ogni tempo possono essere state, di là da quello che avrebbero voluto essere» (p. 43). La fotografia è latrice di una visione antiuniversalista, non legata ai desiderata del soggetto, registra la voce muta degli uomini, delle cose, della natura. Con Barthes, rileva Donà, è possibile asserire che essa metta in atto: «un’astuta dissociazione della coscienza» (p. 45), disvelante l’istante, nel quale l’immobile non sta al di là del mobile. La “scrittura di luce” fissa l’attimo per mostrare ciò che, ogni reale, pare non voler far trasparire da sé: il medesimo, il “permanente” che lo anima, il “non”: «che nel presente, è sempre o già passato o ancora futuro, il “non” che non c’è mai» (p. 54). Un attimo inafferrabile tanto per il nous quanto per i sensi. L’arte fotografica, come qualsivoglia arte autentica, s-determina gli enti dalla cosalità che pur li costituisce e coglie: «il distinguersi del non-distinto» (p. 59).
Il mistero
Il mistero della fotografia è strettamente connesso al misterium vitae, ha a che fare con il sogno di una possibile eternità (aion) che non è altra dal tempo, ma che si dà nel kairos. La macchina fotografica è strumento magico che sottrae, fotografo e fruitore, alle logiche della significazione concettuale e distinguente: le immagini che essa produce sono foto-fanìe (l’espressione è di Zannier), che alludono e accompagnano verso l’invisibile fantasma della vita. Ciò che realmente desideriamo, ben lo seppe Leopardi, non è una “determinatezza”, aneliamo l’infinito. Ci disperiamo, come Narciso che non riuscì, secondo il mito, a possedere la sua immagine riflessa nello specchio d’acqua, perché non sappiamo che quell’infinito non è un altro, è in noi. Siamo divini ab origine. La fotografia insegna a non sperare e a non disperare, a uscire dagli steccati logici e finalistici istituiti dal soggetto. I fotogrammi, nel loro significato profondo, alludono all’aporia della vita: inducono, pertanto, a vivere in dimensione “euforica”, consentono, quantomeno, come le altre produzioni artistiche, di “ben sopportare” il gioco caleidoscopico nel quale siamo avviluppati. Non è poca cosa…
Massimo Donà, Filosofia della fotografia. I prodigi di un insospettabile “obiettivo” (pp. 93, Silvana editoriale, euro 18)