
È già nel primo dei quattordici racconti di un libro di intriganza non essoterica, il programma recondito di una scrittrice – Giovanna Caggegi – che fa del rimescolio dei “loghi” e dei luoghi del racconto la sua arma migliore. Concetta, una donna che non è – nel congegno narrativo – e per quell’occasione non sarà attrice, epperò da attrice vive, e attori che lo sono stati non dimenticandolo affatto: un palcoscenico di attualità perenne, un set d’artistica rilevanza, che ha relegato e relegherà la giustizia al fondo di ogni valore. Se vita e teatro – secondo una lezione ben metabolizzata – sono le parti di un’esistenza a più dimensioni, di questa parte o parte del tutto, la violenza non è l’ultimo dei momenti dello spirito, ma verosimilmente il primo. Violenza s’intende come lingua armata e mano disarmata (la protagonista voleva «camminare simbolicamente sul corpo della direttora…»), violenza di una parola e di un gesto che intonano una melodia disperata talvolta solo disperante. Nell’ambiguo riconoscersi nei personaggi, l’autrice dice al suo pubblico che non può e non potrà non essere come ella racconta: la teatralizzazione della vita sotto il segno di una crudeltà per così dire di mondo.
E così la “lama affilata” o la “rabbia” di un primo racconto che dà il titolo complessivo a un’opera (Colpo di scena, Fuori Asse edizioni, 2025), impreziosita dalla postfazione di Guido Conti, diventano qualità dominanti, un postromantico – si sottolinea il post – wagnerismo o Leitmotiv di quattordici vite, e una pluralità di nomi e mestieri, portati in una scena di quasi comuni abitudini. Un film di Louis Malle, un realismo antimanzoniano. Una metafisica della caverna che non prevede pensiero solare, il continuo colpo di scena di uomini e donne d’oggi, liberi dalle catene della schiavitù e resi però schiavi della loro triste, distratta umanità. Il teatro appunto, il copione, che non è recita ma giudizio di una vita che è già essa stessa gelido teatro.
Si diceva però “non essoterica”. «Il teatro era il teatro» scrive Caggegi. Termine plurivoco ed equivoco che tutto comprende come un oceano di parole e riflessioni. Per pochi, per chi si atteggia a migliore, per ambiziosi, eroi ed eroine, per scolarchi e uomini di una solitudine colma di «furore» e «odio». L’amore è per tutti, la vendetta della parola per pochi. Dov’è il Dio tanto acclamato? Anche qui l’autrice ci sorprende, anch’Esso è nei gesti – pare di comprendere – e nella casualità meno greve, dove può nascondersi non l’effetto del caso ma il volere del Cielo. Per il quale il male sarà agostinianamente lontananza dal bene, ma con un felice, lesto, segretissimo ritorno. Il male è male – è l’invito alla riflessione dell’autrice – perché non vive di chiara o solare spontaneità, perché quel prasseologico farsi esperienza vissuta diverrà, lì per lì e nell’eterno della sua impostazione categoriale, giocata labirintica, spreco di forze, psicologico timore di farcela. La complessità del vivere – o meglio del “cammino” del Desein – sarà tutt’uno con la laboriosità del male. Vince la trasparenza per Caggegi, il non detto; trionfa il silenzio sulla vita, attenzione: non gli umili, ma le entità non presenti ovvero presenti nei suoi racconti per puro caso.
Il male di esserci, gli inferni, la gente, dunque. Persone quasi-personaggi che si autodescrivono con una personalità granitica, impermeabile a un contesto che non muta di colori, pagina dopo pagina, bensì solo di suoni e rumori. «…mentre i cadaveri marcivano lungo le strade». La guerra c’è e in quel teatro della vita deve essere narrata con la sua spettacolarità artistica, senza eccesso di moralismi («L’eroica resistenza del paese occupato fiaccava il morale…»); con occhio fermo, penna kafkiana. Una guerra, o ancora la guerra nella sua profondità esistenziale: lontananza da un bene che non è mai in scena ma fuori da essa: qui forse nella voce dell’ultimo dei personaggi la russa Tatiana. Infine, quella «cenere vulcanica» accumulata ai bordi della pista di un aeroporto siciliano a segnalare l’«ira» – sì, di nuovo – di un’entità eccezionale: l’Etna che si fa “umana” e ovviamente male e mistero. Un inferno a portata di mano, per una città – quella dell’autrice – che sa vivere di occasioni; città violenta dove si ha «la sensazione di pattinare, di scivolare indietro». Città che sa colpirti al cuore, spettacolarmente e d’improvviso. Un giornalista del Berliner Zeitung è lì per assistere a una delle opere liriche più terribili e nere del panorama internazionale. L’opera dell’addio alla vita di Leonard Warren.
Un appuntamento che dovrebbe essere rinascita, l’ennesima, per un luogo che vive di morte e di morti insistenti. Un “paese delle meraviglie” che l’autrice conosce e che alterna – come incrociando piani geografici del cuore – a luoghi o pensieri di numerosi “altrove”, come a decretare l’immanenza di un mondo e di un tema senza ordine; un mondo che (forse) cela il desiderio che qualcuno si diverta a giocare a dadi con le nostre esistenze.
A chiudere il cerchio di quattordici narrazioni di vita e spettacolo – titoli di una nettezza o intensità o brevità icastica: Nemesi, Angelina, Polifemo – la disavventura da film “americano” di Gino: «Le mani in tasca e il capo chino come un pugile sul ring in attesa del gong». Il finale è fiabesco, disorientante, ed esso tratteggia una solidità da Hard Boiled. La morale – cioè la mancanza di una morale ovvia – rivela, ancora una volta, l’essenza o la metafisica del nascosto che domina spunti e trame.