
Un film mediocre, ma comunque superiore allo standard qualitativo a cui il Marvel Cinematic Universe (MCU per gli amici, i pochi che gli sono rimasti) ci aveva abituati negli ultimi tempi; il riferimento corre a flops come “The Marvels” (2023) e “Captain America: Brave New World” (2025), per non parlare dell’imbarazzante performance in cui i Marvel Studios si sono esibiti a livello televisivo, elencarne gli insuccessi sarebbe tedioso e ridondante.
Un film che sa di poco, con alcuni personaggi scritti decentemente (basti pensare al grottesco e volontariamente comico Red Guardian/ Alexei Shostakov, interpretato da David Harbour) a fronte di altri invece negligentemente trascurati, complice anche una scrittura a tratti lacunosa. Ma se i problemi del nuovo film targato Marvel si esaurissero qui potremmo tutto sommato derubricarlo quale ennesimo atto della fase calante della parabola cinematografica del genere cinecomic, e potremmo semplicemente ignorarlo. La questione è che la problematicità vera della pellicola sussiste su un piano ulteriore, ontologico, ed è connaturata al tipo di messaggio che essa, in modo per nulla velato, vuole suggerire allo spettatore.
In riferimento al personaggio intorno al quale ruota la narrazione, Bob Reynolds (aka Sentry/The Void), il significato che gli sceneggiatori di “Thunderbolts*” hanno voluto veicolare è quello secondo il quale di fronte al vuoto interiore (appunto il “void” che noi tutti sperimentiamo, e fin qui il film aveva colto nel segno la diagnosi di una dilagante malattia contemporanea) ciò che occorre fare sia buttare tutto fuori, esternalizzare, evitare a tutti i costi la convivenza intima con gli stati d’animo più spiacevoli che albergano dentro ciascuno e appoggiarsi al prossimo, agli amici. In nuce: da solo non ce la farai, hai bisogno degli altri.
In un’epoca storica in cui l’horror vacui e il “void”, il vuoto esistenziale, hanno conosciuto un incremento esponenziale, al punto da assumere le pantagrueliche dimensioni di vera e propria piaga sociale, occorrerebbe forse invece tornare ai principi stoici, e il riferimento corre alla “scuola” di pensiero filosofico sorta in Grecia nel III a.C. e giunta, pur con notevole discontinuità, sino ai suoi tardi e più noti epigoni di età romana imperiale: Lucio Anneo Seneca, lo schiavo Epitteto e il celebre “imperatore-filosofo” Marco Aurelio, e non allo pseudo-stoicismo dei “fuffa-guru” da social network.
Oggi come non mai è di vitale importanza tornare al principio stoico di ricerca di un equilibrio interiore inscalfibile rispetto alle circostanze esterne, quali la presenza o meno di affetti umani, i quali certo non devono essere disprezzati né respinti, ma sui quali non si dovrebbe fare cieco e acritico affidamento, in quanto l’equilibrio personale fondato su qualcosa di esterno (l’amicizia in questo caso) espone invariabilmente al rischio, qualora il fattore esterno dovesse venir meno, di ritrovarsi nella condizione di dover fare i conti in solitudine con il proprio vuoto, come dovrebbe essere, senza essere però mai stati abituati a farlo, in quanto tanto c’era sempre qualcuno su cui appoggiarsi, perché la cicala quando è estate non concepisce l’avvicinarsi ineluttabile dell’inverno.
I conti con il void si fanno in solitudine, le persone che ci vogliono bene possono contribuire a crearci intorno un ambiente favorevole nel quale intraprendere il percorso interiore, questo però non deve essere appaltato a forze esterne e deve conservare la natura di esclusivo appannaggio dell’individuo che lo intraprende. Le amicizie sono un elemento positivo nelle nostre vite, ma a patto che non servano a distrarci dal nostro vuoto. Non è questo però il messaggio del film. L’impressione è che la cinematografia odierna, quantomeno quella rivolta ad un pubblico di massa, abbia abdicato al proprio ruolo di faro e di guida e si sia ridotta a torbido riflesso delle storture edonistiche in cui la cultura “occidentale” è, forse ormai irrimediabilmente, immersa.
“Thunderbolts*” dà peraltro il suo peggio nelle parole rivolte da Aleksej alla figlia Yelena, quando, nella prima metà della pellicola, il padre cerca di guidare la figlia alla ricerca del significato della Felicità: essa, per l’ex supersoldato sovietico (a quanto pare convertito alla più deteriore American way of life), corrisponderebbe all’essere benvoluti, all’essere popolari, insomma all’essere riconosciuti quali eroi (non è nemmeno importante esserlo davvero, basta che la gente ci acclami come tali), affermazioni mai problematicizzate con lo svolgimento della trama e anzi implicitamente validate dagli eventi finali. Ritornando al principio stoico: nulla di tutto ciò dovrebbe avere a che fare con la felicità, la quale dovrebbe essere mero effetto collaterale del perseguimento di un fine superiore: il comportamento virtuoso, ovvero la vita in accordo con il logos, il riconoscimento che tutto è così come deve essere; ancora una volta: un processo tutto interiore, che non dovrebbe transitare dal pubblico riconoscimento, ma a quanto pare non è questo il tipo di società in cui viviamo, una società in cui lo iato tra essere e apparenza, tra virtù e piacere, si è drammaticamente assottigliato, una società di cui “Thunderbolts*” è plastica rappresentazione.