L’effetto è il dejavù. Il rischio poteva essere la prevedibilità. Invece il regista Robert Carsen ha offerto al pubblico del Teatro Greco un già visto sorprendente, costruendo su questo falso ossimoro il suo Edipo a Colono, la tragedia sequel delle vicende di Edipo, re di Tebe, assassino del padre, marito della madre, accecatosi con la fibbia di lei per scontare delitto e incesto.
La regia e il cast. In un universo mediatico dominato dalla serialità si deve ancora ai Greci l’invenzione delle saghe, delle storie che rimandano di padre in figlio, di percorsi carsici dentro storie familiari. La saga tebana si è impressa nell’immaginario occidentale perché risponde a un’idea di umanità capace di redenzione, di tensione complicatissima verso il bene, di abbraccio spirituale, di capacità di scontare colpe e destino. Cosa fare di una materia così frequentata, Carsen lo ha dimostrato tre anni fa creando con il suo Edipo re un nuovo archetipo teatrale per quella materia. Adesso era consapevole di avere l’onere e la responsabilità di superarsi o almeno di non deviare da quella essenzialità cruda della parola con cui aveva pensato Edipo re. Ecco, allora, la scelta di una grammatica teatrale in due tempi: il tempo del ritorno e il tempo della partenza.
Da una parte il già vissuto scavato negli occhi ciechi di Edipo e reso con movimenti di rewind che Aristotele avrebbe detto peripèteia, rovesciamento: Edipo (Giuseppe Sartori) arriva in scena facendo al contrario, dalle gradinate, il medesimo percorso da cui era uscito tre anni fa con il bastone ricurvo e abbracciato ad Antigone (Fotinì Peluso, un esordio fragile), poi risale all’indietro la scena da cui era sceso nella piena arroganza adesso arreso, sconfitto e desideroso di compiere il suo destino.
Dall’altra parte, l’estetica della liminalità. La maggior parte della rappresentazione avviene a cavallo dello spazio tra l’orchestra e le gradinate, in verità angusto per una completa visuale. Lì stanno o si fermano i personaggi tranne Creonte (Paolo Mazzarelli) e Teseo (Massimo Nicolini) portatori del messaggio politico, dello scontro di civiltà tra la fera e fiera Tebe e la giusta e conservatrice Atene come il cimoniano Sofocle poteva interpretarlo.
Lì si contrappongono idealmente l’abitante di Colono (William Caruso) e il messaggero (Pasquale Montemurro). Lì si schierano le brocche della purificazione portate dal coro degli abitanti di Colono, magistralmente guidato da Rosario Tedesco, lì Polinice (Simone Severini) si veste della mimetica che lo porterà a vaticinata morte, immagine che lascia la suggestione dei giovani scaraventati nelle guerre di oggi.
E lì arriva Ismene (Clara Bortolotti) per avviare l’azione. La scenografia ancora di Radu Boruzescu come le luci, di Carsen e di Giuseppe Di Iorio, tende sì a creare un non luogo beckettiano, come afferma il regista, ma di più traduce l’oltre scenico ed esistenziale in una pinacoteca. Ogni scena si fissa come un quadro e lo spettatore viene preso per mano ad attraversare i corridoi di un’ideale galleria con personaggi che lo trascinano ora a seguirne i movimenti ora a costringerlo a porsi le domande di Edipo “A che servono le belle parole, o la gloria, se scorrono a vuoto?…Ma come posso essere colpevole io? ….Ma che piacere provi ad amare chi non ti vuole?”. La potenza evocativa della scenografia, amplificata dall’assenza di strumenti e spartiti sostituiti da suono e rumori che Cosmin Nicolae ha voluto simbolici laddove la narrazione escludeva il lirismo, ingloba il paesaggio con un gioco prospettico complementare alla geometria, triangoli e linee, già sperimentata, dà forza alla contrapposizione cromatico- simbolica dei costumi di Luis Carvalho.
Bianco e nero, colpa e salvezza, violenza e giustizia, e poi il verde degli abiti delle Eumenidi. Anche qui la citazione: Edipo sotto il pastrano nero ha la veste di Giocasta, ma il bianco si è ingrigito, sporcato da anni di esilio da sé, l’orlo è strappato. Anche qui il simbolo della veste mostrata nel racconto del passato e coperta nell’agire del presente. Edipo a Colono è una tragedia religiosa ma Carsen ha portato la sacralità sul piano dell’espressività, facendo del tradimento testuale la chiave di senso. Inserisce il coro delle Eumenidi (anch’esso composto da allievi dell’Adda con Elena Polic Greco), abitatrici del bosco: un impatto figurativo e coreografico ed etico, una sorta di plusvalenza drammaturgica che compatta gli oggetti simbolici, le parole del rito, la solennità del passaggio. La metempsicosi dal corpo terreno al corpo divino.
La tragedia. Edipo a Colono è, infatti, l’opera ultima di Sofocle, rappresentata postuma nel 401 a. C. Un vero e proprio testamento spirituale: Sofocle avverte sopraggiungere la morte, si chiede cosa sarà dopo il trapasso, anela a una dimensione eterna e per questo riempie il testo riti e parole segrete, di evidenze che risarciscono la cecità in attesa della vista nell’aldilà. Sofocle nell’Edipo alle soglie del compimento terreno costruisce un carattere teatrale potente e scrive una poesia del dolore assoluto e infinito. Religione che trapassa ma non consola, perché nega il sepolcro alle figlie superstiti. Non c’è tomba, nemmeno quella aperta di Cristo, anticipando così Sofocle e superando ogni tentazione trinitaria nella dottrina oracolare e in una sorta di leopardismo ante litteram. La vicenda dell’uomo si chiude con l’uomo. “Solo gli dei non conoscono la vecchiaia e la morte: tutto il resto lo sconvolge, il tempo onnipotente”. La solennità è anche del verso. Francesco Morosi scrive una traduzione misurata ed elegante: come non notare la cura nelle scelte retoriche in equilibrio tra ordine e suono? Come non apprezzare l’insistenza sulle famiglie lessicali di luce e buio, quasi avesse fatto sua quella tentazione di metateatralità (l’etimo di teatro è vedere, ossia passare dal buio alla luce) ravvisata dalla critica nell’ultima tragedia di Sofocle? Il passaggio dal buio alla luce che Giuseppe Sartori ha indossato nel corpo dell’attore.
Il protagonista. Sofocle è tragediografo dell’uomo solo. Per chi interpreta i suoi eroi la sfida è assumere su di sé tale lacerata desolazione nella parola, nel gesto, nel travaglio interiore. Che Giuseppe Sartori dovesse essere Edipo pure nel racconto della sua mistica fine era ostinatamente voluto dal suo pubblico, dalle stesse sacre pietre del Teatro Greco. Non era scontato, però, che Giuseppe Sartori fosse questo Edipo, che lo verticalizzasse a tali altezze di mestiere e commozione. Sartori ha compiuto in questa sua prova il destino di Edipo e il suo destino di attore. La barba ne invecchia i tratti e lascia intatto il vigore dell’attore che, ritraendo man mano il corpo di Edipo dalla scena, la riempie con la tensione dei muscoli, la potenza della voce, la duttilità del timbro. Non è cieco Edipo: Sartori è cieco . L’audacia scenica di consegnarsi in Edipo re nudo è qui il coraggio di recitare con le protesi di silicone incollate agli aocchi, lasciare una fessura non per farsi cieco ma per essere cieco. Sartori, la macchina perfetta di Mejerchol’d. Un prodigio per dirla con Sofocle.
Un prodigio che offre una sorpresa. Un altro tradimento di Carsen. Edipo, vestito da Eumenide, scende gli scalini del bosco. Divo, divino, divinizzato, fuori dall’abisso del compimento e dentro il mito del Teatro Greco di Siracusa, reboante di applausi come i tuoni di Zeus.
Foto di Michele Pantano.