
L‘immagine del corpo senza vita di Benito Mussolini, appeso con ganci di macelleria a un distributore di benzina di piazzale Loreto, a Milano, è un’immagine da “macelleria messicana”, come il dirigente del Comitato di liberazione nazionale Ferruccio Parri stesso disse. E la dice lunga su coloro che uccisero il capo del fascismo e coloro che festeggiarono sulla salma del Duce la sua fine. Ma non finì lì, neppure dopo i colpi, gli sputi e i calci che gli antifascisti dispensarono al cadavere che conobbe un’odissea di dodici anni prima di trovare un po’ di pace. Ora un giornalista e storico indipendente, Ugo Savoia, ha pubblicato un libro, Il corpo di Mussolini, che ricapitola le fasi di questa vicenda. Dopo lo scempio di piazzale Loreto e la seguente autopsia, il cadavere fu portato di nascosto a Musocco, cimitero periferico della zona Nord Ovest di Milano. Qui fu seppellito in un luogo anonimo, senza croce né nome. Le autorità temevano che una “tomba ufficiale” potesse divenire luogo di pellegrinaggio dei neofascisti e simbolo dell’Italia fascista.
La consegna del silenzio fu rispettata: nessuno sapeva dove fossero stati seppelliti i resti del Duce. Un anno dopo, nell’aprile del 1946, un gruppetto di neofascisti decise di trafugare la salma per assicurarle una “sepoltura onorevole”, cristiana, e per difendere i neofascisti emarginati e magari ancora braccati. A dirigere il terzetto che recuperò la salma fu Domenico Leccisi, militante neofascista, fondatore del Partito democratico fascista, che sapeva con esattezza dove era stato tumulato il cadavere. Glielo riferì un altoatesino che lavorava nel cimitero. Tomba numero 384, campo 16. Così, la notte fra il 22 e il 23 aprile del 1946 il gruppetto entrò nel cimitero, raggiunse il punto indicato, scavò fino a trovare la cassa dov’era il Duce. La aprirono, illuminarono il contenuto con una lampada all’acetilene, videro il corpo del capo del fascismo, riconoscibile nonostante fosse in stato di decomposizione, nudo e tumefatto. Lo avvolsero in un telo e al momento di scavalcare il muretto del cimitero, due del “commando” scivolarono e si ferirono: una distorsione alla caviglia per uno, escoriazioni alla gamba per un altro e la salma perse alcune falangi di una mano. Da Milano partirono per Madesimo, in provincia di Sondrio, dove uno del gruppo aveva in fitto una villetta. Lì rimase il corpo nascosto in un baule riposto in fondo alla legnaia. La scomparsa del cadavere dal Musocco fece molto rumore e la stampa italiana e straniera fecero a gara a chi azzardava l’ipotesi più fantasiosa. Intanto spuntavano ovunque testimoni che assicuravano di aver visto Mussolini in giro, in varie città, a Ceylon, in una mongolfiera sulle Alpi, in un aereo spagnolo. A quel punto Leccisi venne allo scoperto e dichiarò di essere disposto a indicare dove fosse nascosto il cadavere in cambio di un’amnistia per le camicie nere reiette e ancora braccate. Poiché gli inquirenti dettero un’accelerata alle indagini, il terzetto si rivolse ai frati dell’Angelicum di Milano, esattamente a padre Enrico Zucca e padre Alberto Parini, fratello – quest’ultimo – dell’ex podestà di Milano, per ottenere un po’ di ospitalità per la salma.. Per “carità cristiana” accettarono e nascosero il baule, contenente i resti, in una botola davanti all’altare di San Matteo.
Gli inquirenti arrivarono a un uomo che non aveva partecipato al trafugamento della salma ma ne conosceva i dettagli. Parlò e così Leccisi e i tre furono arrestati. Mentre erano in carcere, il 22 giugno del 1946, il ministro Palmiro Togliatti varò l’amnistia nei termini richiesti da Leccisi.
Undici anni dopo, Leccisi era deputato indipendente nella lista del Movimento Sociale Italiano. Ci fu una crisi e doveva divenire presidente del Consiglio Adone Zoli della Dc. Ma aveva una maggioranza molto esigua e c’era il rischio di non farcela. Leccisi, contro ogni previsione, votò per lui e Zoli potè ricoprire l’incarico di presidente del Consiglio. Zoli ricambiò togliendo l’embargo sul cadavere di Mussolini e la salma fu tumulata alla Certosa di Pavia, con il benestare del governo. I religiosi si impegnarono, anche stavolta, a non far sapere che il corpo di Mussolini era ospitato da loro, per il solito motivo: evitare che divenisse luogo di culto dei neofascisti. Così fu, fin quando il feretro fu consegnato a donna Rachele per una sepoltura vera e cristiana nella tomba di famiglia, a Predappio.
Ugo Savoia, Il corpo di Mussolini, Neri Pozza ed., pagg. 183, euto 20.00