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Il 25 aprile (oltre la retorica) secondo la lettura di Renzo De Felice

Qual è, alla fine,  l’eredità di una  Resistenza, segnata da divisioni interne, da fratricidi, da legami con le potenze estere ?

by Mario Bozzi Sentieri
25 Aprile 2025
in Corsivi
2
25 aprile, manifesto del Msi

Sono lunghi e complessi i percorsi del 25 aprile. Avendo questa consapevolezza, la nostra modesta proposta a guardare con spirito problematico a questo ottantesimo anniversario, recuperando finalmente  una storiografia libera e non condizionata da “ragioni” politiche, ma non per questo collocabile  nel “girone” dei “nostalgici”. Da qui alcune  nostre modeste domande.   

Il primo quesito  è la complessità del fenomeno resistenziale, che cozza inevitabilmente rispetto ai toni trionfalistici utilizzati per l’occasione. Possono fascismo ed antifascismo  essere ridotti ad oggetti di una contesa ideologica avulsa dalla realtà e fuori dal tempo ? Le  “affermazioni  apodittiche”, la “demonologia”, le  “interpretazioni basate su un classismo rozzo ed elementare” – parole di Renzo De Felice (Intervista sul fascismo, a cura di Michael Ledeen, 1975) – ci fanno tornare indietro sulla strada della verità storica e dell’integrazione nazionale, laddove invece appare  necessario ritrovare i  rispettivi percorsi e le relative luci ed ombre.  Per discuterne  seriamente. Dati alla mano. Superando le contingenze del confronto politico, abbandonando  interessi di parte, laddove – come ha scritto Francesco Perfetti, studioso di scuola defeliciana (Studiare la storia per smontare l’allarme fascismo, “il Giornale”, 17 febbraio 2018) – “Si è tornati, per motivi puramente politici e propagandistici, a una utilizzazione estensiva e demonologica del termine ‘fascismo’ che non ha più nessun riferimento concreto e reale con il fenomeno storico che esso dovrebbe evocare”.

Secondo tema rilevante la complessità dell’antifascismo. Come notò, in Quale Resistenza? (1977), Sergio Cotta, docente universitario di orientamento cattolico e comandante di una brigata partigiana: “… l’antifascismo di Matteotti non è certo quello di Gramsci e Togliatti; l’opposizione dell’Aventino non s’identifica con quella di Giolitti; l’antifascismo di don Sturzo non coincide con quello di Bonomi o di Serrati. Così pure, sul piano culturale, l’antifascismo di Croce non è quello di Gramsci o di Rosselli”. La prima stagione, quella più immediata, contro il Regime, fu l’espressione di un antifascismo minoritario, che Giorgio Amendola, dirigente del Pci (Intervista sull’antifascismo, a cura di Piero Melograni, 1976) indicava nell’ordine di grandezza di alcune migliaia  di militanti per i comunisti e di qualche centinaia per il socialisti e per Giustizia e Libertà. Sono antifascisti a cui va riconosciuto l’onore delle armi (ancorché espressione, per i comunisti, di un’appartenenza ideologica totalitaria), autolegittimati  da una visione parziale ed erronea dell’Italia degli Anni Venti/Trenta: la convinzione che il fascismo avrebbe avuto vita breve, mentre invece il consenso popolare verso il Regime si allargava e consolidava. Solo fattori esterni (la guerra) ed eccezionali (l’azione della monarchia) portarono alla caduta del fascismo nel luglio 1943.  

Da lì inizia la seconda stagione dell’antifascismo, nella quale vengono ad emergere, al di là di un unitarismo di facciata, i diversi orientamenti politici  del fronte antifascista, con una “guerra di liberazione” che prende i tratti, per i comunisti,  della guerra di classe e della guerra civile (entrambe rivolte – dopo i fascisti – contro i cattolici ed i liberali).

Terza questione quella del “peso” della Resistenza rispetto alle vicende belliche e allo scontro tra gli eserciti alleati e quelli dell’Asse. Piero Operti uno che l’antifascismo l’aveva praticato per tutto il Ventennio, nel dopoguerra afferma di come sui partigiani agissero vagamente i motivi ufficialmente professati rispetto a quelli climatici e climaterici: “… il loro numero – scrive Operti (Lettere aperte, 1963)  – diminuiva nella stagione invernale ed  aumentava in primavera, si sgonfiò dal maggio al settembre del ’44 durante l’avanzata degli Alleati dal Garigliano all’Arno e dalle coste di Normandia e di Provenza al Reno, si assottigliò all’inopinato loro arresto sull’Appennino tosco-emiliano e sul Reno, per ricrescere a dismisura dopo che la guerra fu praticamente finita, a metà di marzo, allorché gli Occidentali raggiunsero il Weser e i Russi attraversarono l’Oder”.

Le parole di Operti sconfessano  l’idea del “grande movimento popolare” innescato dalla Resistenza.  

Renzo De Felice (Rosso e Nero, 1995)  non a caso parla di “lunga zona grigia” nella quale si ritrovò  la maggioranza del popolo italiano in attesa della fine. La stessa idea del “popolo alla macchia” , immagine simbolica di una presunta partecipazione popolare alla Resistenza,  cozza con la realtà, laddove proprio gli eventi-simbolo della Resistenza (provocati dalla repressione delle forze armate tedesche) non furono strettamente legati a momenti di combattimento tra le forze in campo. 

I numeri relativi alla consistenza dei gruppi partigiani sono contrastanti e da “prendere con le pinze” –  per dirla  con  Renzo De Felice.  Una fonte attendibile può essere considerato Gian Enrico Rusconi (Resistenza e postfascismo, 1995): “Si stima che nell’inverno 1943-44 gli uomini in armi siano 9.000; con la primavera crescono rapidamente sino a giungere nell’estate gli 80.000-100.000. Segue una forte riduzione di uomini con l’abbandono di circa 30.000-50.000 unità nell’inverno 1944-45. Con il febbraio-marzo 1945 si ha una nuova rapida crescita sino  a toccare e superare nella primavera la cifra di 200.000”.

Da questi dati emerge quella che Romolo Gobbi (Il mito della Resistenza, 1992) ha definito  una militanza “intermittente”, “contrariamente agli schemi epici del ‘partigiano continuo’dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945”. 

Tra partigiani e combattenti della RSI è la cosiddetta “zona grigia dell’astensione” a tenere ancora il campo, dando ai più un lasciapassare per il dopo, ed esonerandoli, nel contempo, a fare i conti con il Regime. Con il risultato che – come ha scritto lo storico liberale Rosario Romeo (voce “Nazione”, in Enciclopedia del Novecento, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1979) – “la Resistenza, opera di una minoranza, è stata usata dalla maggioranza degli italiani per sentirsi esonerati dal dovere di fare fino in fondo i conti con il passato”.

Siamo alla quarta questione:  il  25 aprile può essere veramente considerata una  data simbolo della liberazione nazionale?  In realtà non è eccessivo dire che la “liberazione” nazionale venne “spalmata” su  un periodo compreso tra il 10 luglio 1943 (sbarco degli alleati in Sicilia ed inizio della campagna d’Italia) e l’aprile 1945 (con la resa definitiva della Wermacht siglata il 4 maggio 1945). Il 3 settembre 1943 Reggio Calabria fu occupata dalle forze alleate, seguita il 9 settembre dallo sbarco a Taranto e a Salerno. Napoli cadde il 1° ottobre, Roma il 4 giugno 1944, Firenze ad agosto. Ma fu il crollo delle difese tedesche sulla Linea Gotica, iniziato il 9 aprile 1945, a spianare alle armate  anglo-americane la strada verso Bologna e la Pianura Padana.

Non a caso per  il Sud  si arriva a parlare di “dopoguerra anticipato”, caratterizzato dal ritorno della mafia, dalla diffusione della microcriminalità,  dall’esplosione della rabbia contadina, che in alcuni borghi rurali – Caulonia, Maschito, Calitri – arriva a proclamare delle sia pur effimere “repubbliche”. Sono anni in cui le popolazioni meridionali intrattengono un rapporto ambivalente, spesso conflittuale, con gli alleati, che indossano la duplice veste dei liberatori-occupanti, dei portatori di libertà, di nuovi costumi, ma anche di propagatori di degrado morale e sociale, incarnato dal proliferare degli sciuscià, dal dilagare della prostituzione e del mercato nero.

All’estremo Nord del Paese, a Trieste e nella Venezia Giulia,  la liberazione è segnata dalla data del 12 giugno 1945, allorquando si iniziò a porre fine  all’occupazione da parte dei partigiani titini (segnata dai massacri delle foibe) grazie all’arrivo  delle truppe neozelandesi.

Rispetto a questo quadro “frammentato”, territorialmente e socialmente, il  25 aprile si configura da subito, almeno nell’immaginario collettivo soprattutto delle popolazioni settentrionali,    come una vera e propria guerra civile,  con il suo strascico di assassini politicamente non motivati, di violenze assurde, di volontà liberticide da parte di chi (una buona parte del Pci) la vide e la praticò come uno strumento politico di conquista  del potere.

Qual è, alla fine,  l’eredità di una  Resistenza, segnata da divisioni interne, da fratricidi, da legami con le potenze estere ? Certamente le decine di migliaia di morti, militari e civili, che, con i loro nomi, scolpiti sulle lapidi, punteggiano l’Italia, immagine di un Paese ancora diviso, tra celebrazioni ufficiali e rivendicazioni parziali: partigiani da una parte e fascisti dall’altra, corone per gli uni tentato oblio per gli altri. Nella guerra dei numeri che ha diviso i due schieramenti restano i loro esempi e le aspettative di tanti giovani che – come ci dicono le loro ultime  lettere – credettero, in buona fede,  nella rinascita nazionale, a fronte della “estraneità”  della stragrande maggioranza degli italiani. 

Renzo De Felice, in   Mussolini l’alleato. Vol. III. La guerra civile 1943-1945 (1997),  sottolinea come  il fascismo  repubblicano e il movimento partigiano si trovarono ad agire in un ambiente sociale “che in larga misura era caratterizzato nei loro confronti da uno stato d’animo in cui ciò che prevaleva era l’estraneità, il timore, talvolta l’ostilità e che faceva poca differenza tra di loro”; essi inoltre si fronteggiarono in una lotta che “larghi settori della popolazione (…) avrebbero continuato a lungo a non sentire come propri”, in un atteggiamento che, per la maggior parte degli italiani (in particolare delle regioni del Centro-Nord che furono teatro della guerra civile e del conflitto, che a essa si giustappose, tra tedeschi e alleati), rimase “di sostanziale estraneità e di rifiuto rispetto sia alla RSI che alla resistenza”.

Il paradosso – a ben guardare –  è che, rispetto alla metà degli Anni Settanta e alle acquisizioni di scuola defeliciana, si sia purtroppo tornati indietro. Oggi, le  “affermazioni  apodittiche”, la “demonologia”, le  “interpretazioni basate su un classismo rozzo ed elementare” – parole di De Felice – rischiano di farci arretrare  sulla strada della verità storica e dell’integrazione nazionale. Il fascismo  più che un  problema storiografico è  diventato il collante almeno per una parte dei vecchi partiti antifascisti ed  il solo produttore di identità etico-sociale nella desertificazione dei valori. 

La  Storia, quella vera, sembra  interessare  pochi, laddove più facile è  lasciare il campo alla retorica di parte.  Con il risultato che ora la vulgata corrente  è in mano a mezze figure, più impegnate – come si è visto anche quest’anno –  a lanciare anatemi che a fare una seria ricerca storica.

 

Mario Bozzi Sentieri

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Tags: 25 aprilefascismomario bozzi sentierirenzo de felice

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Comments 2

  1. Sandro says:
    3 settimane ago

    Eccellente articolo

  2. Guidobono says:
    3 settimane ago

    Il 25 aprile non è simbolo di nulla. Andrebbe abolito come festività. È proprio di popoli selvaggi festeggiare le proprie guere civili…

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