
Ultimamente i bio-film musicali sono di moda. L’hanno capito tutti. I morti: Elvis Presley, Freddie Mercury, Bob Marley, Amy Winehouse, Ray Charles, Aretha Franklin, Ray Charles, Jim Morrison, Johnny Cash. E i vivi: lo provano Elton John e Bob Dylan. I successi sono rari, poiché i discendenti tendono a santificare i cari defunti, il cui lavoro, tuttora, spesso garantisce loro un’esistenza dignitosa. E se certi difettucci (droga, alcol, groupies o gigolos) non si possono ignorare (un minimo di credibilità s’impone), di solito sono il prologo al riscatto e al ritorno sulla retta via. Insomma, se non sono vite di santi, almeno che le somiglino un po’.
Troppa aranciata?
Per evitare la trappola, Jimmy Page, Robert Plant e John Paul Jones, superstiti dei Led Zeppelin (il batterista John Bonham ci ha lasciato il 25 settembre 1980 e non per eccesso di aranciate), hanno optato per un documentario di repertorio solo sugli inizi del gruppo; da qui il titolo: Becoming Led Zeppelin. Senza citare le avventure che verranno. La prudenza non basta mai.
Un gruppo o una gang?
In origine, Robert Plant è un cantante dalla voce acuta e John Bonham un batterista molto rumoroso. Entrambi fanno tutto d’istinto. I loro due compagni, Jimmy Page e John Paul Jones, sono l’esatto opposto sono più musicisti di studio. Così li troviamo accanto ad artisti diversi, come Joe Cocker, Michel Polnareff, Rolling Stones, Johnny Hallyday, Who, Kinks e persino Shirley Bassey, quando canta Goldfinger, l’inno dell’omonimo James Bond.
Jimmy Page, ubiquo
Quando fonda il famoso quartetto, nel 1969, Jimmy Page non è uno sconosciuto. Meglio ancora, passa dall’ombra degli studi alla ribalta, si è unito agli Yardbirds, succedendo (nientemeno) a Eric Clapton e Jeff Beck. E’ così che si occupa dei New Yardbirds, che ben presto si trasformano nei Led Zeppelin con uno dei giochi di prestigio di cui lo show business detiene il poco invidiabile segreto. Diversamente da molti colleghi di allora, oscillanti tra dilettantismo e confraternita hippie, Jimmy Page vuole il successo a ogni costo.
Risultato? Un contratto quinquennale con l’Atlantic, fra le più prestigiose etichette discografiche americane, che garantisce loro totale libertà artistica, compreso il diritto di rifiutare i 45 giri per privilegiare brani più lunghi; allungati, diranno alcuni. E, per darsi la migliore prospettiva, assumono per manager un colosso di nome Peter Grant. I suoi metodi non sono lontani da quelli mafiosi, come molti scopriranno a loro spese, perché lui è noto per le offerte che non si possono rifiutare…
La sua personalità è così sulfurea che nel 2002 il giornalista inglese Chris Welch gli dedica un libro, The Man Who Led Zeppelin. L’incredibile odissea di Peter Grant, il quinto uomo (Red Shore), che ne dettaglia le avventure non sempre legali, che l’hanno portato e riportato in prigione.
I re dello stadio?
Non importa, è necessario che la leggenda cominci. Prima di tutto un album, sobriamente intitolato Led Zeppelin, registrato in segreto, un riscaldamento con qualche concerto in Scandinavia e poi negli Usa! E la musica, in tutto questo? Blues fuso, un muro di suono, una batteria inebriante, gli ululati acuti di Plant e la chitarra ipnotica di Page. Quanto alle composizioni, partecipano, a modo loro, ai metodi spregiudicati del manager: standard blues, cui si cambiano un accordo e tre parole, per appropriarsene e non pagare diritti ai veri autori. Alla fine, tutto si risolverà in via amichevole, pagando in contante, per evitare uno scandalo in più.
Infatti nei loro tour-maratona non mancano gli scandali: camere d’albergo devastate, spacciatori a frotte, ragazzine denudate come se piovesse, per non parlare di spettatori che, volendo evitare la coda, finiscono abbandonati quasi morti sul marciapiede. Agli scagnozzi di Peter Grant non si sfugge.
Nonostante ciò, i quattro furiosi musicisti riempiono gli stadi americani, mentre Led Zeppelin II , il loro secondo album, scalza Abbey Road dei Beatles dalle classifiche sia nel Regno Unito, sia negli Stati Uniti. I re sono loro, sebbene i critici musicali scansino questo circo permanente. Ma il pubblico li segue in massa.
L’ombra di Aleister Crowley

Intanto Jimmy Page, forse stordito dalla fama, cede a inclinazioni per l’occulto. Affascinato da Aleister Crowley, il sulfureo mago inglese d’inizio ‘900, colleziona suoi oggetti, fino ad acquistare la sua dimora storica, il maniero Moleskine, sulle rive del Loch Ness. Contemporaneamente compone la musica per Lucifer Rising, film dal titolo eloquente e girato da Kenneth Anger, regista californiano dalle evidenti connotazioni sataniste. Alla fine i due litigano e il progetto sfuma.
E poi quanta leggenda nera c’è nei Led Zeppelin? Sicuramente il contesto dell’epoca, in cui l’ occultismo pre-New Age è all’ordine del giorno nell’aristocrazia del rock, come dimostra Their Satanic Majesties Request dei Rolling Stones, fra i loro peggiori album, tra l’altro. Ma è una cosa seria?
Dimentica con rabbia
Da allora, Jimmy Page evita di rispondere, limitandosi ad affrontare la questione, come fa nel libro di interviste Conversations with Jimmy Page (Ring). Circolano ancora le leggende metropolitane su di loro: il patto faustiano, firmato per ottenere gloria ed eterna giovinezza; lo choc per la morte del giovane figlio di Robert Plant; la morte prematura di John Bonham; e altre supposizioni per un pubblico che vuole emozioni forti.
Si capisce che i tre superstiti della leggendaria band esitino a evocare il passato, anziché i frutti più presentabili. Da qui deriva, forse, la particolare dolcezza di questo documentario. Ma il film più importante su questo gruppo ambiguo e su quest’epoca travagliata è ancora da girare.
Becoming Led Zeppelin (“Divenire Led Zeppelin”) di Bernard Mac Mahon, doc. di repertorio, 137′, distr. cin. Nexo, reperibile sulle piattaforme Netflix, Amazon Prime Video e Rakuten Tv