
Usciamo dalla lettura di un volume collettaneo che ci ha fatto pensare. Ci riferiamo a, Avanguardie dell’origine. Idee per una tecnodestra, nelle librerie per i tipi di Polemos editrice (pp. 90, euro 12). La silloge raccoglie sette saggi di cui sono autori Adriano Scianca, Carlomanno Adinolfi, Andrea Anselmo, Guido Taietti e Francesco Boco (questi ultimi hanno contribuito alla pubblicazione con due scritti) ed è aperta dalla prefazione di Alberto Brandi. Gli autori condividono delle premesse di fondo. Innanzitutto sono convinti, e noi con loro, che viviamo in un frangente storico nel quale è in gioco il senso profondo della civiltà europea. Chi oggi si dedica al pensiero, deve muovere da una certezza: nell’età iper-industriale si pensa, per dirla con Alain Badiou, “dalla fine” non solo della filosofia, ma di qualsivoglia posizionamento identitario, comunitario dato. L’altra premessa condivisa riguarda l’ “inaggirabilità” della Tecnica (l’espressione è del filosofo francese Bernard Stiegler). Dal Gestell è necessario muovere per pensare e agire. Rispetto allo stato presente delle cose, qualsivoglia risposta meramente “conservatrice”, qualsiasi atteggiamento politico animato da nostalgia per il “bel tempo andato”, neo-luddista, risulta inefficace, passivo, in quanto condivide il medesimo orizzonte politico-ideologico della “religione dei diritti”, ennesima variabile degli universalismi progressisti.
Di contro, se abbiamo ben inteso, i saggi di Avanguardia dell’origine, tendono a una messa in discussione radicale dei presupposti teorici prevalsi nel pensiero europeo attraverso la metafisica a muovere dalla filosofia classica. Essi stanno a monte della visione monocratica, discesa dai monoteismi, fattasi storia in un lungo processo temporale. L’ultimo momento di tale iter è rappresentato dalla governance che pienamente risponde, sotto il profilo politico, ai bisogni del capitalismo cognitivo e computazionale. Viviamo ormai virtualmente, l’infosfera creata dal Gestell contemporaneo (di cui si occupano Guido Taietti e Francesco Boco) sta annullando la realtà, le relazioni vere, corporali, che legano gli uomini. L’uscita di sicurezza da tale impasse è individuata dagli autori nel recupero dello spirito europeo: «uno spirito in cui gli opposti si incontrano, in cui la visione di antiche fortezze si sovrappone ad astronavi che si librano nel vuoto interstellare verso nuovi mondi» (p. 8), sostiene Brandi. Tutti i saggi sono animati da tensione archeofuturista che, muovendo dagli assunti del Futurismo italiano, sposa le tesi di Guillaume Faye. Al tema, Andrea Anselmo dedica il suo scritto, incentrato sull’analisi della profondità iniziatica delle pagine di Ernst Jünger, non casualmente autore di Der Arbeiter, per giungere alla proposta trasvalutatrice della Tecnica propria del pensatore francese.
La medesima direzione ideale la si evince dal contributo di Carlomanno Adinolfi. Questi propone la conciliazione di realtà divergenti, barbarie e civiltà, che sarebbe resa possibile, a suo dire, dal recupero della Tecnica quale archetipo puramente indoeuropeo. E’ l’Eroe, figura negletta dalla cultura dominante, a divenire, in questa prospettiva il nuovo soggetto della storia. Gli Eroi, ben lo seppe Carlyle sono tali quando, nell’agire antiutilitaristico che li induce al sacrificio della vita, non si limitano a rivendicare un passato dato, ma: «la fonte metastorica della nostra identità» (p. 9).
Il fondamento filosofico di tali tesi va rintracciato nel saggio di Adriano Scianca, Dynamis. Una filosofia delle forze, che apre il volume e ne rappresenta il momento più rilevante. L’autore discute l’asserzione platonica del Sofista, nella quale il filosofo ateniese sostenne l’ente altro non essere che dynamis: «Essere è produrre o patire un effetto, agire o patire […] il reale è una potenza che si esercita producendo effetti» (p. 11). Scianca ha ragione nel sostenere che la dynamis in quanto en-ergheia precede la distinzione di atto e potenza. A sua dire, la traduzione del termine dynamis con “possibilità” e la stessa ontologia aristotelica, nella quale la potenza sarebbe legata, in rapporto costitutivo, con la potenza-di-non, come chiarito da Agamben, avrebbe sterilizzato il senso della dynamis, intesa da Scianca quale forza puramente affermativa. In realtà, la nostra posizione in tema è differente: per uscire dagli esiti della metafisica è esattamente al “possibile” che bisogna guardare. L’origine, per chi scrive, è il sempre possibile: essa si dà, come seppe la filosofia greca inaugurale, solo nella physis.
Nel suo spazio, gli atti non sono che periechein, “ciò che momentaneamente avvolge” la dynamis mai normabile, come sostennero Andrea Emo e Julius Evola nella loro critica alla linea ermeneutica che, in relazione all’Atto, si è sviluppata con continuità da Aristotele fino a Gentile. Pensare, sic et simpliciter, la dynamis quale “forza affermativa” rischia, a nostro parere, di ricondurre la “filosofia delle forze” nelle braccia del soggettivismo, esito chiarissimo della metafisica. Non è casuale che l’esegesi di Scianca si richiami esplicitamente a Nietzsche, al prospettivismo, sia pure letto in termini nominalistici che, come mostrato da Giampiero Moretti, in Heidelberg romantica, indica, con tutta evidenza, come il grande pensatore tedesco, con la teorizzazione della volontà di potenza, sia stato l’ultimo metafisico. Lo stesso Heidegger era di questo avviso. Per uscire dalla metafisica, e recuperare, stante la lezione in tema di Löwith, la physis–mixis quale unica trascendenza cui guardare, è necessario salvare quel “non-potere” della dynamis che vige sempre negli atti. Essi altro non sono che il momentaneo positivizzarsi di una negazione originaria.
La Tecnica moderna è altro dalla technè ellenica. Se l’ambito della prima è inaggirabile e, con essa, è giusto fare politicamente i conti, è necessario riconciliare Orfeo e Prometeo, non assolutizzare uno dei due termini. Il prometeismo, lasciato a se stesso, non tiene in alcun conto il limite greco segnato dalla physis, che impedisce qualsivoglia possibile ibridazione trans-umanista. Detto questo, sia pure nei termini rapsodici che una recensione impone, condividiamo con Scianca la necessità di uscire dai dualismi di mondo e sovramondo, di essenza e di esistenza, di corpo e anima in quanto: «La filosofia delle forze è […] un pensiero dell’immanenza, dell’immediatezza, della pienezza» (p. 15) e non può per questo essere pensata in termini assiologici. Per noi resta centrale il superamento della dicotomia essere-nulla. Quest’ultimo, il principio, il nulla-di-ente, la libertà-potenza, si dà solo come essere nell’eterna metamorfosi della physis.
Di là dalle divergenze interpretative siamo grati agli autori di, Avanguardie dell’origine, per aver presentato tematiche cruciali, sotto il profilo teorico e pratico, che dovrebbero essere, per questo, discusse in spazi diversi da quelli di una semplice recensione.